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12 novembre 2013 2 12 /11 /novembre /2013 10:05

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Nereo Villa Opere

Il pensare non è il pensato. Il pensare è un verbo. Il pensato è un sostantivo. Che pensare e pensato siano due concetti non significa che il loro contenuto sia uguale, dato che il primo è in fieri mentre il secondo è compiuto. Ciò che è in fieri è in vita. Ciò che è compiuto è morto. Steiner osserva la vita del pensare. Scaligero la chiama movimento predialettico. I denigratori di Scaligero e di Steiner spiegano tali osservazioni come percezioni ingannevoli facendone un metodo di attivismo fichtiano...

Chi scambia “La filosofia della libertà” di Steiner con la filosofia della libertà di Fichte, che è mero attivismo paleocomunista poggiante su spiritualismo assoluto, inganna se stesso. Se poi egli predica queste castronerie ad altri, inganna non solo se stesso ma anche gli altri: grazie a lui l’antroposofia diventa massoneria, e roba da venditori ambulanti, dato che Fichte era un pennivendolo ed un massone, come coloro che ancora oggi anacronisticamente ne promuovono l’attivismo. (Fichte è considerato un ciarlatano da molti; vedi, per es., il De Sanctis in “Schopenhauer e Leopardi”, Reggio Calabria 2007; Schopenhauer considerava Fichte un pagliaccio al punto che togliendo l’acca alla “Wissenschaftslehre”, “Dottrina della scienza” di Fichte, la chiamava “Wissenschaftsleere”, che significa “Vuoto della scienza”; vedi la ciarlataneria di Fichte anche in Dioniso “Fichte e la Propaganda Filosofica degli Illuminati”).

Chi scambia “La filosofia della libertà” di Steiner con la filosofia della libertà di Fichte, fa comunque questo errore perché crede l’opera principale di Steiner una dottrina, e vede questa dottrina come un metodo di esercizi per imparare a pensare, paragonandolo ad un metodo per imparare a suonare uno strumento musicale. Inoltre, in base alla definizione aristotelica di Dio come attività del “noesis noeseos” (“pensare il pensare”, Aristotele, “Metafisica”, libro 12° libro) egli crede che il “metodo” di Steiner per imparare a pensare sia di conseguenza anche un metodo per imparare a fare il padre eterno, in quanto pensatore puro e/o creatore assoluto in senso fichtiano, secondo la seguente deduzione: “le cose che lo spirito creatore pensa diventano realtà; il fatto che Lui le pensa le fa realtà; quindi pensare significa creare realtà” (1° mp3 del 1° seminario su "La filosofia della libertà" di Rudolf Steiner, tenuto da Pietro Archiati a Rocca di Papa, Roma, dal 15 al 18 Febbraio 2007).

Ma pensare significa creare realtà solo per Fichte, la cui filosofia crea solo “una grandiosa immagine mentale del mondo, senza alcun contenuto sperimentale” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 2°).

Esattamente come Kant, il quale era convinto che gli esseri umani del suo tempo fossero legni storti da raddrizzare, il contraffattore fichtiano dell’opera di Steiner sulla libertà è convinto che gli esseri umani del proprio tempo siano dei “poverini, poverelli” (ibid.) e procede così nella creazione del “bisogno” (ibid.) - tutto suo in quanto predicatore di professione - “di fare questa piccola scuola di pensiero” (ibid.).

Fichte, riferendosi al dovere del contadino e dell’operaio dichiara: “chi si impadronisce di questo concetto non solo valuterà con giustizia il mondo e le sue relazioni, ma anche innalzerà il proprio valore mediante il sublime punto d’appoggio che ha acquistato. Far sorgere, consolidare, vivificare questa maniera di pensare é il punto a cui deve sboccare tutta l’istruzione che io chiamo massonica” (J. G. Fichte, “Lezioni di massoneria”).

Il contraffattore fichtiano di Steiner, riferendosi alla “missione del dotto” dichiara: “vedremo nel corso degli incontri che man mano che ognuno entra in questa creatività propria gestisce tutto lo strumentario culturale che la cultura gli da’ dal portato dell’arte, della religione, della scienza, se ne serve con piena sovranità, con piena libertà” (2° mp3, op. cit.).

Per il contraffattore, il Logos di Fichte, attinto dal vangelo di Giovanni, è l’“attività pensante, che viene gestita dall’individuo, a partire dalla sua libertà, perché non è costretto a farlo, nessuno lo costringe a farlo, a partire dalla sua libertà” (ibid.) ed in quanto “individualizzato, interiorizzato, e quindi reso diverso in ogni essere umano, viene chiamato lo Spirito Santo: lo Spirito Santo è il Logos in quanto viene liberamente recepito, interiorizzato, individualizzato dall’individuo, se lo vuole, nella misura in cui vuole. E questa è la seconda venuta del Cristo, del Logos, in forma di Spirito Santo” (ibid.).

Ma la diversificazione del Logos, o dell’“organismo di pensieri del cosmo” (ibid.) riguarda ciò che NON è l’io, dato che l’io è identico in tutti come io cosmico, o Logos, e che diventa poi “un io personale, un io individuale, poi si individua ulteriormente, divenendo un io razionale, astratto, poi ancora di più e diventa l’ego, ma è sempre lo stesso io” (M. Scaligero, “Graal. Rivista di scienza dello Spirito”, Ed. Tilopa, Anno XX - N. 79-80 - 2002, “p. 107).

Inoltre “la seconda venuta del Cristo, del Logos, in forma di Spirito Santo” è solo l’ennesimo contenuto di una fede in un Dio umanamente personale, che non c’entra nulla col contenuto della filosofia della libertà di Steiner, nella quale anzi troviamo scritto: “Non un Dio umanamente personale, né energia o materia, né la volontà senza idee di Schopenhauer, possono far da unità universale” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 5°).

Per quale motivo allora il contraffattore inserisce contenuti di fede nell’opera di Steiner?

Li inserisce per parlare della cattiveria in senso fichtiano, consistente nel peccato contro lo spirito come peccato di omissione: “L'uomo non sarà perciò detto cattivo nella misura in cui è un essere sensibile bensì nella misura in cui è un essere immobile, inerte” (Fichte, Sämmtliche Werke, vol. IV, pp. 198 sg., in Alexis Philonenko, “Storia della filosofia a cura di François Châtelet”, Milano 1976, vol. V, p. 56), e ancora: “la pigrizia è il vero male radicale, innato nell'uomo, che lo spinge nella via delle abitudini in cui s’impastoia la libertà” (ibid.). In tal modo, egli può spiegare “La filosofia libertà” di Steiner servendosi di precisi termini presi dall’attivismo di Fichte: “Soltanto l’individuo che commette peccati di omissione rispetto al suo spirito è capace di recuperare i colpi perduti” (2° mp3, op. cit.). Il colpo perduto è uno sforzo (“Streben” nel linguaggio fichiano) che è venuto a mancare a causa dell’immobilità e dell’inerzia umana, che sono appunto il male secondo Fichte.

Il predicatore contraffattore predica in tal modo una teologia della libertà fatta di massoneria fichtiana frammista a cattolicesimo, che ascoltatori possono scoprire solo conoscendo l’opera di Fichte, cosa in verità alquanto rara oggi…

Il contraffattore, per spiegare Steiner, non mancherà ogni volta di declamare la superiorità della lingua tedesca, esattamente come aveva fatto Fichte, il quale nei suoi roboanti “Discorsi alla nazione tedesca” affermava la superiorità linguistica tedesca come superiorità culturale, spirituale e filosofica...

Siamo nella pazzia? Purtroppo le cose stanno proprio così: “qual è la traduzione migliore della filosofia della libertà in italiano? Non esiste la traduzione migliore [...] non è una traduzione la cosa che meglio aiuta, ma una spiegazione” (2° mp3, op. cit.).

Ma “La filosofia della libertà” di Steiner spiegata in modo eterodiretto, cioè da fuori, che senso può avere oggi? Andrebbe casomai spiegata in modo autonomo (oltretutto, secondo Steiner oggi ognuno dovrebbe avere la propria individuale religione): ognuno potrebbe e dovrebbe spiegarla a se stesso. . Ognuno può e deve spiegarla a se stesso. Per un italiano sarà anche un po’ più difficile in italiano di quanto non lo sia in tedesco per un tedesco, ma non c’è davvero bisogno di contraffattori fichtiani, massonici o cattolici, e tanto meno di teologi! Ci sono i dizionari, dal sanscrito all’ebraico fino al tedesco, ecc., no?

No. Per il contraffattore non è così. Per lui ciò che più conta è l’idioma nazionale: “oggettivamente parlando dobbiamo dire che il linguaggio tedesco, la lingua tedesca è, diciamo [...] quella che più, in un certo senso, diciamo, meglio di tutte, si fa da ricettacolo dei misteri, ed anche dei cammini del pensiero” (ibid.). Ma quando mai?

Il contraffattore si fa passare per iniziato.

Peccato che la maggior parte delle sue contraffazioni siano esternate in modo massimamente emotive e simili a quelle di un nevrotico, dato che la calma è il primo passo di ogni iniziazione.

Prima di pensare di correggere Steiner (cfr. “Sull'ingannosofia ovvero la filosofia che fraintende se stessa”) non sarebbe forse meglio cercare di auto-educare se stessi?

Inoltre, prima di pretendere di rendere il tedesco indispensabile per la comprensione della filosofia, il contraffattore dovrebbe almeno riconoscere che : 1°) quella di Steiner, più che una filosofia, è il risultato di osservazioni dell’attività interiore umana, dunque sostanzialmente esperienza, esperienza del concetto, quella che manca sia a lui che a Fichte; e 2°) che Steiner in merito alla indispensabilità dell’elemento tedesco, la pensava in modo abbastanza diverso, dato che se il tedesco non si affina genera solo menzogna: «[…] L’elemento tedesco non possiede un’attitudine istintiva allo sviluppo dell’anima cosciente; ha solo la disposizione per educarsi all’anima cosciente […] deve essere educato a farlo […] può conquistarla solo a mezzo dell’educazione» (R. Steiner, “Esigenze sociali dei tempi nuovi”, 6ª conf. di Dornach dell’8/12/1918).

Ed ancora: assolvono a tale compito “solo coloro che hanno attuato la loro autoeducazione. La gente meramente istintiva non resta toccata dal muoversi dell’anima cosciente; resta per così dire distaccata”. […] i tedeschi [...] hanno foggiato la natura intellettualizzante […]. Delle tre cose caratterizzate nella favola di Goethe: la potenza, la sembianza, la conoscenza, al tedesco è toccato il compito, nell’epoca dell’intellettualità, di foggiare la sembianza dell’intellettualità […]. Il tedesco mente non solo quando è cortese […] può mentire anche quando vuol applicare le sue migliori inclinazioni in un campo per il quale non ha attitudini innate, per il quale le attitudini possono essere educate con sforzo individuale […]. La popolazione di lingua tedesca viene portata dalla sua politica a quanto in realtà non è disposta; quando si affida agli istinti può quindi venir portata facilmente in una situazione poco chiara, insincera; non si troverà invece mai in situazioni oscure, se i suoi rappresentanti, che si sforzano di pervenire all’intellettualità, si sottoporranno ad adeguata autodisciplina […]. La politica tedesca diventerà idealismo sognante che non avrà molto a che fare con la realtà; avrà a che fare con tutto ciò che è falso, con ogni teorizzazione - e qui non si intende moralmente - perché ogni teorizzazione è falsa» (ibid.).

Pertanto, quella della società antroposofica massonica per l’attivismo del comunismo giuridico fichtiano non può che essere una società in cui il pensare è sostituito col pensato, ed il pensato col legiferato in nome... della libertà. Non c’è limite al peggio...  

***

Per approfondire la differenza fra pensare e pensieri, cfr. "Il pensare e i pensieri" di Lucio Russo.

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12 novembre 2013 2 12 /11 /novembre /2013 10:00

Chi scambia “La filosofia della libertà” di Steiner con la filosofia della libertà di Fichte, che è mero attivismo paleocomunista poggiante su spiritualismo assoluto, inganna se stesso. Se poi egli predica queste castronerie ad altri, inganna non solo se stesso ma anche gli altri: grazie a lui l’antroposofia diventa massoneria, e roba da venditori ambulanti, dato che Fichte era un pennivendolo ed un massone, come coloro che ancora oggi anacronisticamente ne promuovono l’attivismo.

Chi scambia “La filosofia della libertà” di Steiner con la filosofia della libertà di Fichte, fa comunque questo errore perché crede l’opera principale di Steiner una dottrina, e vede questa dottrina come un metodo di esercizi per imparare a pensare, paragonandolo ad un metodo per imparare a suonare uno strumento musicale. Inoltre, in base alla definizione aristotelica di Dio come attività del “noesis noeseos” (“pensare il pensare”, Aristotele, “Metafisica”, libro 12° libro) egli crede che il “metodo” di Steiner per imparare a pensare sia di conseguenza anche un metodo per imparare a fare il padre eterno, in quanto pensatore puro e/o creatore assoluto in senso fichtiano, secondo la seguente deduzione: “le cose che lo spirito creatore pensa diventano realtà; il fatto che Lui le pensa le fa realtà; quindi pensare significa creare realtà” (1° mp3 del 1° seminario su "La filosofia della libertà" di Rudolf Steiner, tenuto da Pietro Archiati a Rocca di Papa, Roma, dal 15 al 18 Febbraio 2007).

Ma pensare significa creare realtà solo per Fichte, la cui filosofia crea solo “una grandiosa immagine mentale del mondo, senza alcun contenuto sperimentale” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 2°).

Esattamente come Kant, il quale era convinto che gli esseri umani del suo tempo fossero legni storti da raddrizzare, il contraffattore fichtiano dell’opera di Steiner sulla libertà è convinto che gli esseri umani del proprio tempo siano dei “poverini, poverelli” (ibid.) e procede così nella creazione del “bisogno” (ibid.) - tutto suo in quanto predicatore di professione - “di fare questa piccola scuola di pensiero” (ibid.).

Fichte, riferendosi al dovere del contadino e dell’operaio dichiara: “chi si impadronisce di questo concetto non solo valuterà con giustizia il mondo e le sue relazioni, ma anche innalzerà il proprio valore mediante il sublime punto d’appoggio che ha acquistato. Far sorgere, consolidare, vivificare questa maniera di pensare é il punto a cui deve sboccare tutta l’istruzione che io chiamo massonica” (J. G. Fichte, “Lezioni di massoneria”).

Il contraffattore fichtiano di Steiner, riferendosi alla “missione del dotto” dichiara: “vedremo nel corso degli incontri che man mano che ognuno entra in questa creatività propria gestisce tutto lo strumentario culturale che la cultura gli da’ dal portato dell’arte, della religione, della scienza, se ne serve con piena sovranità, con piena libertà” (2° mp3, op. cit.).

Per il contraffattore, il Logos di Fichte, attinto dal vangelo di Giovanni, è l’“attività pensante, che viene gestita dall’individuo, a partire dalla sua libertà, perché non è costretto a farlo, nessuno lo costringe a farlo, a partire dalla sua libertà (ibid.) ed in quanto “individualizzato, interiorizzato, e quindi reso diverso in ogni essere umano, viene chiamato lo Spirito Santo: lo Spirito Santo è il Logos in quanto viene liberamente recepito, interiorizzato, individualizzato dall’individuo, se lo vuole, nella misura in cui vuole. E questa è la seconda venuta del Cristo, del Logos, in forma di Spirito Santo” (ibid.).

Ma la diversificazione del Logos, o dell’“organismo di pensieri del cosmo” (ibid.) riguarda c i ò che NON è l’io, dato che l’io è identico in tutti come io cosmico, o Logos, e che diventa poi “un io personale, un io individuale, poi si individua ulteriormente, divenendo un io razionale, astratto, poi ancora di più e diventa l’ego, ma è sempre lo stesso io” (M. Scaligero, “Graal. Rivista di scienza dello Spirito”, Ed. Tilopa, Anno XX - N. 79-80 - 2002, “p. 107). Inoltre “la seconda venuta del Cristo, del Logos, in forma di Spirito Santo” è solo l'ennesimo contenuto di una fede in un Dio umanamente personale, che non c’entra nulla col contenuto della filosofia della libertà di Steiner, nella quale anzi troviamo scritto: “Non un Dio umanamente personale, né energia o materia, né la volontà senza idee di Schopenhauer, possono far da unità universale” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 5°).

Per quale motivo allora il contraffattore inserisce contenuti di fede nell’opera di Steiner? Li inserisce per parlare della cattiveria in senso fichtiano, consistente nel peccato contro lo spirito come peccato di omissione: “L'uomo non sarà perciò detto cattivo nella misura in cui è un essere sensibile bensì nella misura in cui è un essere immobile, inerte” (Fichte, Sämmtliche Werke, vol. IV, pp. 198 sg., in Alexis Philonenko, “Storia della filosofia a cura di François Châtelet”, Milano 1976, vol. V, p. 56), e ancora: “la pigrizia è il vero male radicale, innato nell'uomo, che lo spinge nella via delle abitudini in cui s’impastoia la libertà” (ibid.). In tal modo, egli può spiegare “La filosofia libertà” di Steiner servendosi di precisi termini presi dall’attivismo di Fichte: “Soltanto l’individuo che commette peccati di omissione rispetto al suo spirito è capace di recuperare i colpi perduti” (2° mp3, op. cit.). Il colpo perduto è uno sforzo (“Streben” nel linguaggio fichiano) che è venuto a mancare a causa dell’immobilità e dell’inerzia umana, che sono appunto il male secondo Fichte.

Il predicatore contraffattore predica in tal modo una teologia della libertà fatta di massoneria fichtiana frammista a cattolicesimo, che ascoltatori possono scoprire solo conoscendo l’opera di Fichte, cosa in verità alquanto rara oggi…

Il contraffattore, per spiegare Steiner, non mancherà ogni volta di declamare la superiorità della lingua tedesca, come Fichte, che nei suoi roboanti “Discorsi alla nazione tedesca” affermava la superiorità linguistica tedesca come superiorità culturale, spirituale e filosofica... Siamo nella pazzia. Ma le cose stanno così: “qual è la traduzione migliore della filosofia della libertà in italiano? Non esiste la traduzione migliore [...] non è una traduzione la cosa che meglio aiuta, ma una spiegazione” (2° mp3, op. cit.).

Ma le cose non stanno così. “La filosofia della libertà” non può essere spiegata in modo eterodiretto, cioè da fuori. Va spiegata in modo autonomo. Ognuno può e deve spiegarla a se stesso. Per un italiano sarà anche un po’ più difficile in italiano di quanto non lo sia in tedesco per un tedesco, ma non c’è davvero bisogno di contraffattori fichtiani, massonici o cattolici, e tanto meno di teologi! Ci sono i dizionari, dal sanscrito all’ebraico fino al tedesco, ecc., no?

No. Per il contraffattore non è così. Per lui ciò che più conta è l’idioma nazionale: “oggettivamente parlando dobbiamo dire che il linguaggio tedesco, la lingua tedesca è, diciamo [...] quella che più, in un certo senso, diciamo, meglio di tutte, si fa da ricettacolo dei misteri, ed anche dei cammini del pensiero” (ibid.). Ma quando mai? Il contraffattore si fa passare per iniziato. Peccato che la maggior parte delle sue contraffazioni siano esternate in modo massimamente emotive e simili a quelle di un nevrotico, dato che la calma è il primo passo di ogni iniziazione.

Prima di pensare di correggere Steiner (cfr. “Ingannosofia ovvero la filosofia che fraintende se stessa”) non sarebbe forse meglio cercare di auto-educare se stesso?

Inoltre, prima di pretendere di rendere il tedesco indispensabile per la comprensione della filosofia, dovrebbe almeno accorgersi di due cose: 1°) che quella di Steiner, più che una filosofia, è il risultato di osservazioni dell'attività interiore umana, è sostanzialmente esperienza, esperienza del concetto, quella che manca sia a lui che a Fichte; e 2°) che Steiner in merito alla indispensabilità dell'elemento tedesco, la pensava in modo abbastanza diverso, dato che il tedesco se non si auto-educa comporta in sé il mentire, la menzogna, la PARVENZA.

E proprio a questo proposito, concludo con dichiarazioni di Steiner: «[…] L’elemento tedesco non possiede un’attitudine istintiva allo sviluppo dell’anima cosciente; ha solo la disposizione per educarsi all’anima cosciente […] deve essere educato a farlo […] può conquistarla solo a mezzo dell’educazione» (R. Steiner, “Esigenze sociali dei tempi nuovi”, 6ª conf. di Dornach dell’8/12/1918). E ancora: assolvono a tale compito “solo coloro che hanno attuato la loro autoeducazione. La gente meramente istintiva non resta toccata dal muoversi dell’anima cosciente; resta per così dire distaccata”. […] i tedeschi [...] hanno foggiato la natura intellettualizzante […]. Delle tre cose caratterizzate nella favola di Goethe: la potenza, la sembianza, la conoscenza, al tedesco è toccato il compito, nell’epoca dell’intellettualità, di foggiare la sembianza dell’intellettualità […]. Il tedesco mente non solo quando è cortese […] può mentire anche quando vuol applicare le sue migliori inclinazioni in un campo per il quale non ha attitudini innate, per il quale le attitudini possono essere educate con sforzo individuale […]. La popolazione di lingua tedesca viene portata dalla sua politica a quanto in realtà non è disposta; quando si affida agli istinti può quindi venir portata facilmente in una situazione poco chiara, insincera; non si troverà invece mai in situazioni oscure, se i suoi rappresentanti, che si sforzano di pervenire all’intellettualità, si sottoporranno ad adeguata autodisciplina […]. La politica tedesca diventerà idealismo sognante che non avrà molto a che fare con la realtà; avrà a che fare con tutto ciò che è falso, con ogni teorizzazione - e qui non si intende moralmente - perché ogni teorizzazione è falsa» (ibid.).

La grande bufala dell'antroposofia massonico-fichtiana
La grande bufala dell'antroposofia massonico-fichtiana
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9 novembre 2013 6 09 /11 /novembre /2013 12:21

Grazie alla scuola degli imbroglioni, oggi l’antroposofia di Steiner si è trasformata in “ingannosofia” vale a dire nella filosofia di chi crede che la percezione sia un inganno da superare.

Questa filosofia parte dall’opinione che il mondo delle rappresentazioni sia dominato dalle leggi dello spirito, ed i suoi portatori, gli “ingannosofi”, sono convinti che tutto quanto arriva loro da fuori è solo un inganno, o una maya, in quanto riflesso soggettivo.

Secondo gli “ingannosofi” la parvenza delle cose nascerebbe dal fatto che le cose producono su di loro impressioni che essi connetterebbero secondo leggi del loro intelletto e della loro ragione.

Della possibilità che l’essenza delle cose possa parlare loro attraverso la loro ragione, essi non hanno la più pallida idea, e neanche la vorrebbero. Per questo motivo l’“ingannosofo” può essere caratterizzato con ragione come il prototipo del cretino.

L'errore fondamentale dell’“ingannosofo” consiste nel pretendere di considerare come oggetto la facoltà soggettiva di conoscenza, ma distinguendo tanto acutamente quanto ingiustamente IL PUNTO DOVE SOGGETTIVO E OGGETTIVO S’INCONTRANO.

QUAL È QUESTO PUNTO?

Soggettivo e oggettivo s’incontrano quando si tende ad unire in un’unica essenza le cose del mondo, e questo vale per ognuno a partire dalla propria interiore attività. In tal caso perciò il contrasto tra soggettivo e oggettivo termina nella realtà unificata.

Invece per l’“ingannosofo” non è così, in quanto egli è a priori convinto che, anche osservando le cose del mondo, non potrà mai pervenire alla loro realtà essenziale, quindi manco ci prova, convinto com’è, che un’opinione sulla loro essenza non possa esistere, e che possa essere invece osservato solo il come le cose gli appaiono. In tal modo però egli mostra di rapportarsi al mondo da subordinato, cioè alla Fantozzi.

Una conoscenza della relazione fra soggetto e oggetto, corrispondente al nostro rapporto con le cose che vogliamo conoscere non è però così impossibile. Diventa impossibile solo se non si riesce a far fuori un secolare pregiudizio culturale: la convinzione che la soggettiva facoltà di rappresentarci le cose sia un’invalicabile barriera che ci separa tanto dalla nostra essenziale realtà quanto da quella della cosa.

Nel loro acutissimo ma erroneo pensare gli “ingannosofi” procedono ancora kantianamente nella convinzione fichtiana di avere superato Kant, ed è come se dicessero: “Noi sappiamo che il rappresentare non ci è dato dalla realtà oggettiva, e che è piuttosto il rappresentare soggettivo a darci, non la realtà essenziale come NOUMENO, bensì l’ILLUSIONE della realtà, cioè il FENOMENO. Per noi è sbagliato accettare l’inganno come se fosse realtà perché ciò è come accettare un dogma: il dogma dell’accettazione del mondo nel suo darsi, assunto come dato empirico da collocare poi surrettiziamente come rispecchiabile sul piano gnoseologico. Pertanto l’unica possibile filosofia della libertà è per noi l’idealismo, dato che l’idealismo parte dall’idea dell’io, e da ciò che tale idea comporta come attività creatrice e trasformativa dell’io”!

Con questo loro atteggiamento che oltretutto credono rivoluzionario, gli “ingannosofi” non si accorgono però che sono proprio loro a porre davvero un dogma estremo, quello dello Stato assolutamente etico. Infatti, partendo dall’idea dell’io, e tematizzando la non necessità di vivere schiacciati da dogmatismi imposti da individui, gruppi, istituzioni, ecc., Stato compreso, finiscono per sostenerne l’insuperabilità, e giustificano la “forma-Stato” sulla base di una sedicente malintesa evoluzione dell’io, cioè intesa come scopo dell’agire umano nella storia, in coerenza con i princìpi di una filosofia della libertà, in base alla quale sia sostituita ogni legge positiva (devi fare questo e quello…) con la relativa legge negativa (non devi fare questo e quello…) scientificamente finalizzata a proibire tutto quanto sia di ostacolo alla libertà. Ma perfino Fantozzi direbbe che questa è veramente una “cagata pazzesca”!

È incredibilmente pazzesco ma è proprio così: l’“ingannosofo” cade nell’inganno da lui stesso tramato: in base alla sua rappresentazione di libertà dice “Basta” alle imposizioni! E credendo semanticamente che “imporre proibizioni” non significhi “imporre” ma solo “proibire”, per lui l’unica cosa “imponibile” è la proibizione di tutto ciò che impedisce di essere liberi.

Faccio un esempio per chiarire: affannandosi nel predicare di SOSTITUIRE L’IMPOSTA DELLA “DECIMA” (l’antica legge che imponeva al contadino di dare il dieci per cento del raccolto al suo signore o imperatore o dirigente territoriale era detta “decima”) CON LA PROIBIZIONE DI TENERE PER SÉ PIÙ DEL NOVANTA PER CENTO del proprio raccolto o reddito, l’“ingannosofo” è convinto di salvaguardare in tal modo la sua libertà.

Ma quale?

Quella di pagare di più?

Sì, l’“ingannosofo” è talmente cretino che si sente davvero libero nella misura in cui può dire a se stesso: “Io sono libero, perché se voglio, posso pagare di più della decima al mio signore”! Ed essendo “libero” di pagare più del dovuto, egli si sente libero. Non si accorge della stupida ipocrisia che si nasconde in quella arzigogolata libertà, dato che pagare una tassa per via impositiva o per via proibitiva è sempre un privarsi del reddito proveniente dal sudore della propria fronte! Insomma egli è un cretino. Un cretino convinto del proprio essere libero.

Ovviamente, qualora in un sistema legislativo si attuasse veramente questa stupidità dell’“ingannosofo” si cadrebbe solo da un’antica padella a una “nuova” brace, o dal sistema antico della carota e del bastone ad un nuovo sistema in cui al posto del bastone ci sarebbe un bastone ricoperto dal guanto dell’ipocrisia, in una sorta di magnifico e sempreverde pugno di ferro in guanto di velluto…

Il tutto riconfigurerebbe così l’inattesa ricaduta nel dogmatismo, grazie ad una malintesa - cioè moraleggiante - finalità del compito dell’umanità: se infatti il compito dell’uomo consiste nell’avvicinare sempre più l’uomo ad una condizione etica che renda superfluo il ricorso allo Stato, e se tale compito è infinito (cioè tale che non giunge mai a determinazione concreta) allora non solo lo Stato non può mai essere superato, ma diventa esso stesso l’inatteso “noumeno” (o realtà essenziale o “cosa in sé”) che la prassi trasformatrice dell’io non può affatto rimuovere.

E chi in realtà secoli fa pensava in un modo così stupido era J. Gottlieb Fichte, oggi emulato dagli ingannosofi che predicano Steiner forzando ogni pagina della sua opera principale sulla libertà.

L’idealismo dell’“ingannosofo” si capovolge allora, grazie al FRAINTENDIMENTO del compito dell’uomo, nel dogmatismo che egli voleva debellare. Così facendo, in definitiva si adotta una terapia che diventa mortale proprio come la malattia che si voleva curare.

Il fraintendere qualcosa incomincia dal sopra accennato punto in cui il concetto di questa incontra la propria percezione.

L’“ingannosofo”, nel suo idealismo di base, non riesce minimamente a cogliere tale punto, convinto com’è che concetto e percezione abbiano contenuti diversi, e che la percezione vada considerata un inganno da superare (P. Archiati, “La percezione. Un inganno da superare”, Ed. Archiati, 2004) o addirittura “il momentaneo spegnersi del pensare” (P. Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa - Roma - dal 14 al 17 febbraio 2008), come se il percepire dei sensi non comprendesse anche un senso per il pensare, o come se il percepire sovrasensibile non fosse realtà.

Quando però si parla di soppesare o di percepire, intendendo il riflettere pensante, lo spirito del linguaggio contraddice però questo materialismo (e/o intellettualismo) degli “ingannosofi”. Perché il contenuto di un concetto e quello di una percezione non sono antitetici né nemici. Lo sono solo per gli “ingannosofi”. Ma per la realtà, non lo sono. Infatti scrive Steiner: “Il concetto è individuale e pieno di contenuto quanto la percezione. La sola differenza sta in ciò che per afferrare il contenuto della percezione non occorrono se non sensi aperti e contegno puramente passivo di fronte al mondo esterno, mentre il nucleo ideale del mondo deve nascere nello spirito per la spontanea attività di quest’ultimo se, in genere, ha da manifestarsi. È VACUO E OZIOSO DIRE CHE IL CONCETTO SIA NEMICO DELLA PERCEZIONE PIENA DI VITA. NE È L’ESSENZA, IL VERO PRINCIPIO ATTIVO E OPERANTE IN ESSA; E AGGIUNGE IL PROPRIO CONTENUTO AL SUO SENZA ABOLIRLO [il carattere maiuscolo è mio - ndr], POICHÉ COME TALE NON LO RIGUARDA” (R. Steiner, “Le opere scientifiche di Goethe”, cap. 8°).

Ecco invece come l’“ingannosofo” predica il contenuto della percezione per ABOLIRLO.

Quanto sto per dire ha dell’inverosimile. E soprattutto ha dell’inverosimile il fatto che nessuno mai si sia accorto, soprattutto in ambito antroposofico, del fatto che questi cretini usino Steiner per abolire il contenuto della percezione in nome del contenuto dello spirito ed approdando così a quel monismo obsoleto che Steiner ha sempre combattuto!

Spiegando l’aggiunta finale alla nuova edizione del cap. 3° de “La filosofia della libertà” e riferendosi al concetto di intermittenza luminosa, l’“ingannosofo” afferma: “Nella percezione ho un mondo non reale ma astratto, perciò frammentato all’infinito; ma questa frammentazione è astratta: astrae dalla realtà perché la realtà è il NODO che mette insieme tutto quanto. Quindi la materia, la cosiddetta materia è l’astrazione dalla realtà dello spirito. Astraendo dalla realtà dello spirito, che è continua, l’astrazione della materia, quindi la cosiddetta materia, il mondo della percezione, è l’astrazione più grande che ci sia perché astrae dalla realtà dello spirito. Quindi nella percezione ho un’astrazione, non una realtà, e perciò è frammentata” (P. Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa - Roma - dal 14 al 17 febbraio 2008).

Se si esamina il primo pensiero di questa affermazione si scorge già il primo errore. Si afferma: “Nella percezione ho un mondo non reale ma astratto”. Ma astratto da chi? Qual è il soggetto di questo participio passato. Oppure “astratto” non è un participio passato del verbo “astrarre” ma è solo un aggettivo che si applica passivamente a qualcosa? Comunque, l’unica cosa al mondo capace di astrarre è sempre il soggetto del pensare, quindi è l’io. Anche volendo considerando la parola “astratto” come un aggettivo, non abbiamo qui una percezione ma già una considerazione, cioè una MEDIAZIONE del pensare. Ma lo sperimentare la percezione osservata da Steiner è sempre e soltanto riferibile alla percezione IMMEDIATA, cioè all’aggregato sconnesso di sensazioni non ancora MEDIATO dal pensare.

Poi l’“ingannosofo” dichiara: “perciò frammentato all’infinito; ma questa frammentazione è astratta: astrae dalla realtà perché la realtà è il NODO che mette insieme tutto quanto”.

Ora il soggetto dell’astrarre è per lui la frammentazione!

Invece dovrebbe essere il pensare, no?

Come fa una frammentazione ad astrarre?

Impossibile senza il pensare.

Però il frescone non può dirlo perché se lo dicesse ammetterebbe di parlare non di percezione ma del pensare.

Infatti, ripeto, come fa una frammentazione ad astrarre?

Questo fatto della frammentazione che astrae avviene dunque solo nella mente arruffata dell’“ingannosofo”, secondo il quale la frammentazione “astrae dalla realtà perché la realtà è il NODO che mette insieme tutto quanto”!

Ma così non è.

Se fosse così avremmo che l’uomo è libero e/o monista grazie alla realtà, non grazie a se stesso. La realtà non può dunque essere quel NODO indicato dall’“ingannosofo”, che da questo momento in poi chiamerò “cretino”..

Per Steiner la realtà è fatta di percezione e di concetto NON ancora “annodati”. Ed il fatto che percezione e concetto non siano ancora annodati in quel PUNTO DOVE SOGGETTIVO E OGGETTIVO S’INCONTRANO ma che ciò attenda l’opera umana non rende l’uno nemico dell’altro: soggettivo ed oggettivo sono nemici uno dell’altro “soltanto quando UNA FILOSOFIA CHE FRAINTENDE SE STESSA vuol trarre fuori dall’idea tutto intero il ricco contenuto del mondo sensibile; perché in tal caso essa presenta, invece della natura vivente un VUOTO SCHEMA DI FRASI” (“Le opere scientifiche di Goethe”, op. cit. ibid.).

“UNA FILOSOFIA CHE FRAINTENDE SE STESSA” è appunto l’“ingannosofia” dei vari cretini circolanti a piede libero in veste antroposofica.

Più avanti, per spiegare le percezioni, il cretino pone un’equazione presa dall’ambito musicale che fa ancora più confusione. Egli dice: “Le percezioni stanno al pensare come le macchie d’inchiostro nere stanno alla musica” (P. Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa - Roma - dal 14 al 17 febbraio 2008), facendo intendere che quelle macchie sono la notazione musicale.

Anche qui siamo nell’imbecillità: quelle macchie, cioè l’aggregato sconnesso di sensazioni di chiaroscuro che mediante il pensare concettualizzo come note, pause, battute, ecc., sul pentagramma musicale sono GIÀ realtà, in quanto percezioni e concetti. La loro realtà è di essere notazione, perché solo in questa loro realtà possono evocare precisi rapporti di intervalli sonori. La musica ha tutta un’altra realtà fatta anch’essa di percezione e concetto ma non è musica per via della notazione. Infatti si può produrre musica anche senza conoscere una nota scritta! Allo stesso modo si può parlare di scrittura linguistica. La scrittura non è scrittura in quanto contenuto di ciò che evoca. Il contenuto evocato e il contenuto di una scrittura sono due cose differenti, dato che la sostanza del primo, la carta, l'inchiostro, le lettere, i segni, ecc., e la sostanza del secondo, le cose evocate, sono differenti.

Ma vediamo come il cretino arriva a FRAINTENDERE tutto spiegando Steiner e svisandolo.

Egli legge Steiner: “Chi nel pensare vuol vedere qualcosa di diverso da ciò che vien prodotto nell’io stesso come attività” e aggiunge di suo: “attività continua quindi, non frammentata, attività di sintesi”. Legge ancora Steiner: “osservabile, deve anzitutto rendersi cieco di fronte al semplice dato di fatto evidente all’osservazione, per poter poi mettere a base del pensare un’attività ipotetica” e aggiunge ancora di suo: “frammentata, che riaccende il pensare a ogni pié sospinto” (ibid.). E aggiunge ancora di suo che “IL PENSANTE [lo spirito pensante] ED IL PENSARE SONO LA STESSA COSA” (ibid.).

E qui casca l’asino (o il cretino): credendo che la sostanza naturale dell’oggetto di percezione sia inganno, il cretino non può comprendere le parole di Steiner, se non come indistinte astrazioni. Certamente le cose, in quanto astrazioni, sono tutte astratte, e quindi tutte uguali. Però qui Steiner non parla in modo astratto. Parla del pensare vivente e di ciò che è prodotto nell’io come attività, come di elementi SOSTANZIALMENTE identici, ma solo come natura, sostanza, appunto. Ciò però non vale in merito ai loro rispettivi contenuti di realtà, dato che uno è pensare inconscio e l'altro conscio. DUNQUE NON SONO LA STESSA COSA! Dicendo che il pensante ed il pensare sono la stessa ci si rende davvero ciechi proprio sul fatto che il pensare inconscio NON È LA STESSA COSA del pensare conscio! NON SONO LA STESSA COSA pur avendo la medesima natura. Che non siano la stessa cosa non significa infatti che il loro contenuto percettivo sia un’attività di altra natura. Questo e non altro intende significare Steiner scrivendo l’aggiunta finale alla nuova edizione del cap. 3° de “La filosofia della libertà” a proposito di intermittenza. Pensante e pensare sono la stessa cosa solo non distinguendo di cosa si tratta o distinguendolo in modo assai grossolano. Questo modo grossolano di intendere è appunto quello del cretino, convinto che la percezione sia inganno...

Insomma, delle due l’una: o si pretende di predicare la filosofia della libertà senza pensare, oppure si pensa. Se si pensa, si osserva che “pensare attivo” e “pensato”, cioè “i risultati di un’attività non cosciente che sta a base del pensare” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, Aggiunta alla nuova edizione, cap. 3°) sono sostanzialmente ma non concettualmente identici. Solo se si è abituati a considerare la sostanza illusione e quindi a scotomizzarla si è costretti a osservare solo il relativo concetto, che però è un concetto fichtiano, privo di contenuto di esperienza reale.

Cos’è l'esperienza reale?

Si provi ad esempio a stabilire, e qui sta il punto, se l’“attività non cosciente che sta a base del pensare” sia o no altra dal pensare, o se sia un “altro pensare”. Nella mia esperienza reale io so che è “altro pensare”. Perché? Perché si tratta di un’attività che dopo essere sgorgata dalla fonte “incoscia” del mio io, attraversa innanzitutto la regione “subcoscia” della “psiche”, poi quella “precoscia” della “physis”, e infine sfocia, arrestandosi, in quella “coscia” del “soma”. L’ordinaria coscienza del pensare cos’altro è allora se non una consapevolezza “postuma”? È una coscienza che, per tutto il tempo in cui il pensare vive in me, permane nel buio. E quando il buio scompare? Il buio scompare dalla coscienza solo quando tramonta e muore nel “pensato”. Solo allora io sono consapevole, dato che la luce ha sostituito il buio. Il morto pensiero, cioè il pensato di cui ora sono cosciente, non proviene dunque, come credeva von Hartmann, da un’attività d’altra natura. Proviene dal precosciente o incosciente pensare vivente. Dunque è casomai il morto pensiero cosciente ad essere di altra natura, così come un essere vivente è altro dalla sua fotografia o dalla sua salma!

Sia ben chiaro che gli “ingannosofi” non sono solo coloro che parlamo di scienza dello spirito di Steiner essendone sprovveduti e sostituendola col “Vuoto della scienza” di Fichte o con altre filosofie della moderna new age americana [nota bene che Schopenhauer chiamava la dottrina della scienza di Fichte “Vuoto della scienza” sostituendo il termine “Wissenschaftslehre”, “dottrina della scienza” con “Wissenschaftsleere”, che significa appunto “vuoto della scienza” (A. Schopenhauer, “L’arte di insultare”, Adelphi, Milano 1999, p. 64)]! Gli “ingannosofi” sono tutti coloro che da secoli pretendono arrampicarsi sullo spirito attraverso VUOTI SCHEMI DI FRASI (“Le opere scientifiche di Goethe”, op. cit. ibid.), già a partire da Kant, col suo “noumeno” senza contenuto, da Schopenhauer stesso col suo mondo di rappresentazione, da Avenarius col suo empiriocriticismo, ecc., fino ai preti o mezzi- preti attuali del “pensiero”, che da decenni ho battezzato “mentecattocomunista”.

Credendo di combattere il materialismo con l’idealismo, i vari mentecattocomunisti del pianeta non si rendono minimamente conto del fatto filologicamente e storicamente incontrovertibile in base al quale il “codice filosofico” della cosiddetta “filosofia della prassi” è tutt’altro che materialistico. Infatti è idealistico! E nemmeno si rendono conto che la formazione di questo “codice” risale proprio ai tempi della “Wissenschaftslehre” di Fichte.

Sottolineo che Kant, in una solenne dichiarazione pubblica del 1799 prese ufficialmente le distanze da Fichte, affermando che il proprio sistema era radicalmente incompatibile con quello di Fiche, che definì come “metafisico” in senso “scolastico”. Ma entrambi i sistemi (quello di Kant e quello di Fichte) si fondavano sulla metafisica della morale universale, che sostanzialmente blocca, anche se in modo diverso, la gnoseologia al “noumeno” cioè alla cosa in sé (Ding an Sich). Ecco perché perfino Lenin poi loderà quel mantenimento kantiano del “noumeno” come “elemento materialistico della filosofia di Kant” (cfr. Costanzo Preve, “Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra materialismo e idealismo”, Saonara, 2007).

In poche parole, kantianamente o fichtianamente, gli “ingannosofi” distinguono ancora il cosmo dal “cosmo in sé” o dal “non-io”, in nome della conoscenza (Kant) o della morale necessità della “forma Stato” ( “Stato etico assoluto” che è la “cosa in sé” di Fichte), studiando e predicano la morale universale fondata ancora oggi su dualismo e/o su monismo malinteso.

«Da un dualismo di questo tipo - scrive Steiner - scaturisce la distinzione tra oggetto di percezione e “cosa in sé”, distinzione introdotta da Kant nella scienza e fino ad oggi mai più rigettata» (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 7°, §3°).

Per chiarire, la reale dinamica del rapporto fra percezione e concetto durante il processo conoscitivo è la seguente: C’È UN ATTO PERCETTIVO DEL SOGGETTO, E C’È UN CONTENUTO OGGETTIVO DELLA PERCEZIONE, che il kantismo chiama “percetto” confondendolo col soggettivo risultato del processo percettivo. MEDIANTE IL PENSARE CHE CONCETTUALIZZA TALE CONTENUTO, L’OGGETTO DI PERCEZIONE È COSÌ CONOSCIUTO. Il formarsi del concetto (nell’universalità del pensare) avviene gradualmente attraverso la rappresentazione (o concetto individualizzato).

Ogni conoscenza è invece per Fichte qualcosa di opposto allo spirito. Per Fichte l’attività conoscitiva fondamentale, resa possibile dall’immaginazione, è il rappresentare [Vorstellen] ed ogni conoscenza è innanzitutto “rappresentazione” [Vorstelung], che sintetizza per la coscienza una realtà oggettiva, cioè rende conoscibile all’intelligenza dell’“io teoretico” [theoretisc Ich] un non-io esterno OPPOSTO ad essa (cfr. “Fichte Fondamento dell’intera dottrina della scienza” a cura di Guido Boffi, Ed. Bompiani, Milano 2003, pag. 670)!

Da qui gli arzigogoli dei cretini sul sopra citato “NODO” della realtà e sulla percezione da loro fichtianamente vissuta come immagine rappresentativa opposta, e quindi come inganno da superare (“La percezione. Un inganno da superare”, op. cit)!

Questa confusione è difficile da eliminare proprio perché l’esperienza della percezione, colta nel suo stato ancora antecedente il pensare, non tutti riescono ad avvertirla. Ecco perché si scambia la percezione col giudizio su essa, giudizio che è quindi non antecedente ma successivo al pensare, il quale è già entrato in gioco per poterla giudicare come quel dato oggetto.

Ecco per esempio la convinzione erronea di un altro pretone (D. Luigi Giussani), la quale mostra che il fenomeno della percezione, consistente nell’incontro dell’essere del soggetto con l’essere dell’oggetto, può essere avvertito solo attraverso l’osservare il pensare, e non attraverso deduzione di pensati. Giussani è convinto che sia il giudicare a ricevere il “colpo dell’essere” (L. Giussani, “L’attrattiva Gesù”, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1999).

Ma così non è.

Il “COLPO DELL’ESSERE” avvia casomai il processo percettivo, così come l’“immagine percettiva” lo termina. Il fraintendimento deriva dal fatto che è grazie a questa immagine finale che prendiamo coscienza dell’esistenza dell’oggetto.

Kant distingue, dice Steiner, “fra oggetto della percezione e cosa in sé”. Se “oggetto della percezione” non è la “cosa in sé”, allora non può che esserlo l’immagine percettiva, ma considerare questa “oggetto della percezione” significa confondere non solo l’immagine percettiva dell’oggetto (che ha forma, come ha forma la rappresentazione) con il percetto (che non ha forma, come non ha forma il concetto), ma anche il percetto con l’essenza dell’oggetto (che non è solo percetto, ma unità di percetto e concetto).

IL PUNTO DOVE SOGGETTIVO E OGGETTIVO S’INCONTRANO possiamo chiamarlo come vogliamo: NODO come lo chiamano i cretini, o COLPO come lo chiama Giussani. Ciò che conta è distinguere gli oggetti di percezione dai loro concetti senza opporre i primi ai secondi o viceversa, né abolirli in nome di un monismo malinteso, che è solo pensiero malato.

La trasformazione dell’antroposofia nell’“ingannosofia” procede proprio da questo malanno in cui il sano intelletto si sclerotizza intellettualisticamente, si rammollisce sentimentalisticamente, o si disprezza volontaristicamente...

Che schifo la libera conoscenza se genera solo la libertà di dire cazzate!

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8 novembre 2013 5 08 /11 /novembre /2013 10:31

L'idealismo critico, qualunque esso sia - da Kant a Fichte fino ad ogni sedicente “antroposofo” fichtiano (purtroppo oggi esiste anche questa categoria di truffatori) - condanna l’uomo al “solipsismo”, segregando il conoscere umano nel soggettivismo delle rappresentazioni, e privandolo della speranza di accedere alla realtà per poterla migliorare. Le grandi impalcature di pensiero della chiesa cattolica e protestante, e quelle dell’idealismo tedesco (Fichte, Shelling ed Hegel) appartengono alla medesima “cattolicità”!

Incapaci di umiltà nel rinviare ad eventuali ulteriorità assenti - come ad esempio quella di Rudolf Steiner quando scrive che il suo lavoro scientifico sulla libertà: «non pretende avere in mano “l’unica possibile” via alla verità, ma vuole descrivere quella percorsa da uno cui la verità sta a cuore» (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, 2ª Appendice, §8°) - ma risolvono la verità nel sistema concettuale che si presenta come pensiero unico e fichtianamente assolutizzato.

Tali impalcature non potranno mai più avere un seguito perché la potenza dei sistemi che costituirono, fu, è, e rimarrà pre-potenza, che esclude a-priori (pre) ogni ulteriorità di sensi, sensazioni e significati possibili, ad eccezione di quelli predisposti e coordinati dal loro sistema.

Il problema del costo del denaro, che Draghi ha recentemente annunciato come dimezzato dallo 0,50 allo 0,25%, il problema del signoraggio bancario, e quello della percezione malintesa (o intesa come inganno da superare dall’attivismo per il comunismo giuridico proibizionista massonico fichtiano) sono il medesimo problema, irrisolvibile dall’imperativo categorico che comanda la gente mediante legalità priva di legittimità, cioè senza ragione umana.

Il costo del denaro è infatti una tautologia, dato che il denaro rappresenta il costo delle merci, dunque non può avere alcun senso perché il costo del costo delle merci è, e rimane, una truffa colossale, la stessa che imperversa nelle politiche economiche di tutta Europa a partire dalla fondazione della banca di Inghilterra. Lo disse già Marx nel suo “Capitale” (Libro 1°, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 817-818), ma ciò fu sempre inascoltato, soprattutto dalla sinistra, attualmente addirittura culo e camicia con le banche).

L'unica speranza possibile riposa nel diritto di epicheia, cioè nell’individualismo etico, sostitutivo dell’utopico Stato etico putiniano e merkeliano, “antroposoficamente” supportati oggi dai “neo chierici traditori” dell’idea dell’organismo sociale triarticolato, già auspicato da Goethe, Schiller e Steiner, ma che mai si realizzerà finché si accetteranno parole indicibili come “costo del denaro”, parole magiche del neo oscurantismo che affama tutto il pianeta per ingrassare poche “famiglie”, di cui sono recentemente apparsi perfino i nomi: Rothschild, Rockfeller, Astor, Bundy, Collins, Dupont, Freeman, Kennedy, Li, Onassis, Russell, Van Duyn, Merovingi, ed ai quali si può benissimo aggiungere anche Berlusconi.

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7 novembre 2013 4 07 /11 /novembre /2013 13:21

Per Johann Gottlieb Fichte l’individuo deve... scomparire.
Da una parte egli scrive: «La ragione è l’unico “in sé”, mentre l’individualità è soltanto accidentale. La personalità [..] è soltanto un modo particolare di esprimere la ragione, ed è destinata necessariamente a perdersi nella forma universale di essa. Per la “Dottrina della scienza” soltanto la ragione è eterna, mentre l’individualità deve decadere incessantemente, fino a morire (die Individualität muss unaufhörlich absterben)» (C. Cesa, “Prima e Seconda introduzione alla dottrina della scienza”, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 87).
Dall’altra, scrive che «Dio è la ragione stessa» (J. Gottlieb Fichte, “Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften”, hrg. von R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzky, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1962, sez. 4, 1° vol., p. 446).
In tal modo, affermando che la ragione pur essendo Dio si dissolve post mortem nella ragione universale, ragiona esattamente come un seguace della dottrina di Averroè, più volte accennata da Rudolf Steiner come aristotelismo spurio.
Se avesse minimamente ragionato in modo sano, Fichte si sarebbe accorto che questo suo averroismo non poteva stare in piedi, dato se fosse veramente stato convinto del dissolversi post mortem del proprio io nella ragione universale, avrebbe dovuto dire allora che la morte socializza forzatamente, dato che annienta quel corpo che è l’unico elemento che (nella convinzione di Averroè e nella propria, dato che anche per Fichte il corpo è un tratto distintivo della razionalità finita degli esseri umani) distingue una persona dalle altre. In tal caso non potrebbe però optare per la socializzazione nella convinzione che ogni socializzazione, forzata o non forzata, comporti l’annientamento dell’individualità!
Insomma secondo questo modo sballato di intendere l’individualità, perché mai dovrei optare per la socializzazione? Forse per diventare con Fichte precursore del contrasto comunista tra l’individuale e il collettivo che, non riuscendo a comporsi mediante un superiore grado di sviluppo dell’autocoscienza o di quell’“individualismo etico” di cui parla Rudolf Steiner nella sua opra principale, si risolve tutto (come oggi avviene) mortificando o annientando l’individuale per mezzo del collettivo (del partito, dello Stato o della Chiesa) o al contrario mortificando o annientando il collettivo per mezzo dell’individuale (dell’egoismo dei nostri governanti mascherati da altruisti)?
Nel comunismo - senza la scienza steineriana - convivranno sempre due tendenze, una rigida, dogmatica, statalista, ed economicistica; e un’altra di liberazione, pluralista, umanista.
In termini steineriani, la prima è “arimanica” e la seconda “luciferica”.
E dato che la storia ha mostrato il fallimento della prima, i nostalgici puntano allora sulla seconda. Per esempio, sui cosiddetti “girotondini”, “movimentisti” o “no-global” che si crede la rappresentino.
Fra costoro ci sono anche i sedicenti antroposofi di “Libera conoscenza”, con a capo Pietro Archiati che predica, sì, la libertà, ma la libertà comunista e attivista di Fichte...
Con l’opera “Der geschloßne Handelsstaat” (Lo Stato economico chiuso) Fichte instaurò “un regime comunista e proibizionista” (Giorgio Del Vecchio, “Il comunismo giuridico del Fichte”, Kessinger Legacy Reprints; testo pubblicato nel sito “Nereo Villa Opere”) in cui lo Stato era minutamente disegnato secondo un “vero trattato di comunismo giuridico, ossia (in lato senso) di socialismo di Stato” (ibid.).
Questa è dunque l’antica dinamica della nascita del comunismo acefalo, dinamica secondo la quale anche se Fichte, “l’ideologo formidabile della libertà, termina invocando il proibizionismo commerciale e l’assolutismo di Stato” (ibid.), il suo disegno minutamente tracciato nel 1800 sui compiti dello Stato è ancora predicato oggi, terzo millennio, da Pietro Archiati come scienza di Steiner: “Il legislatore deve unicamente stabilire quali azioni sono vietate, e devono perciò essere punite” (Pietro Archiati, “Il pensiero, via maestra alla felicità. Dialogo fra scienze naturali e scienza dello spirito” Ed. Archiati).
QUESTA IDEOLOGIA DI ARCHIATI È PERÒ FINO A PROVA CONTRARIA UNA CONTRAFFAZIONE DELLA SCIENZA DELLA LIBERTÀ DI STEINER.
Dunque delle due l’una: o Archiati e la sua banda di “Libera conoscenza” sono dei mistificatori consapevoli di esserlo e quindi dei criminali, oppure credono davvero che la libertà sia la libertà di dire fregnacce una dopo l’altra mettendole in bocca a Rudolf Steiner. In tal caso si ostinerebbero ad ignorare la scienza dello spirito a carattere antroposofico, ottenebrandosi volontariamente, quindi sarebbero una banda di zombi cretini!
Vero è che in nome dello Stato si diviene ciechi volontari: ci si chiude gli occhi per non vedere: l'io si nutre dell’opposizione all’oggetto di percezione, cioè al non-io fichtiano, e non si riesce a ritrovare se stessi al di là di quella soglia che il pensiero rappresentativo, la coscienza sensibile e l’ego temono di attraversare per paura di perdersi.
Ma l’io ordinario, o ego, non è il male. È solo l’embrione dell’io superiore, etico e sociale.
I sinistrorsi, o i cattocomunismi, anzi i “mentecatto comunisti”, dunque non si illudano. Perché solo da una perseverante e mai esaustiva autoeducazione dell’ego (fondata su una vera e profonda conoscenza dell’essere umano) può venire alla luce l’io, quindi un mondo migliore, non da una sua più o meno violenta o “conviviale” costrizione, generatrice del solito e vetusto mondo malmondato...
Per Fichte “l’idealismo è la sola filosofia della libertà, poiché muove dall’io e dalla sua attività creatrice e trasformativa” (D. Fusaro, “L’aporia dello Stato in Fichte”, GCSI - Anno 3, numero 5, ISSN 2035-732X, p. 112).
Per Steiner la filosofia della libertà è monismo.
Per Fichte è la passione idealistica della libertà a imporre lo Stato come principio morale decisivo, e solo mediante l’azione dello Stato diventa possibile per lui garantire l’eguale libertà dei soggetti e il loro libero sviluppo.
Per Steiner ciò sarebbe una malattia dell’organismo sociale, simile a quella di un organismo umano in cui il sistema cardiocircolatorio volesse arginare il lavoro del sistema nervoso e quello metabolico.
L’individuo è per Fiche conseguenza necessaria dell’azione dello Stato inteso come principio morale, e scrive: “il vero scopo dello Stato è di aiutare ciascuno a raggiungere quello a cui, come partecipe dell’umanità, ha diritto, e di mantenerlo in tale condizione” (J. Gottlieb Fichte, “Lo Stato commerciale chiuso”, Bocca, Milano 1909, p. 29).
Lo Stato è invece per Steiner conseguenza necessaria della vita dell’individuo, e scrive: “L’individuo umano è la sorgente di ogni moralità e punto centrale della vita terrestre. Lo Stato, la società, esistono soltanto perché risultano come conseguenze necessarie della vita individuale” (R. Steiner, “La filosofia della libertà, cap. 9°, §48).
Evidentemente per Archiati queste differenze non contano, dato che dopo avere letto per la prima volta “La filosofia della libertà” racconta di avere avuto l’impressione di averla scritta lui, che aveva fatto la sua tesi di laurea su Fichte!
Secondo Archiati, l’errore di Fichte consisterebbe semplicemente nel fatto che se anziché partire dall’io, Fichte fosse partito dall’idea del conoscere, avrebbe capito che l’io pone il conoscere, e scrive: “Fichte, invece di partire dall’idea del conoscere, è partito dall’idea dell’io. Concepito come inizio assoluto, come libertà assoluta, l’io non può porre che se stesso. Ma questo porre se stesso rimane senza contenuto. Bisogna chiedersi: che cosa pone l’io ponendo se stesso? L’oggetto di questa attività assoluta del porre, Fichte non l’ha mai chiarito. Egli fa iniziare l’io con una decisione libera, con un atto assoluto: ma quale atto? Se Fichte fosse invece partito dall’idea del conoscere, gli sarebbe stato più facile comprendere che l’io pone il conoscere” (Pietro Archiati, “Libertà senza frontiere”, Ed. Archiati, p. 74).
Ma quando mai?
L’io non pone il conoscere. L’io conosce. Il soggetto umano attuando il processo del conoscere non crea nulla, non pone alcunché. Se io conosco il Sole, mica lo creo, e manco lo pongo. Infatti è poi lo stesso Archiati a scrivere che Fichte “non ha tenuto conto che nella teoria della conoscenza (da lui chiamata «teoria della scienza»: Wissenschaftslehre) non si tratta specificamente dell’uomo in quanto attore libero, ma in quanto soggetto conoscente” (ibid.). Ma appunto come fa allora il soggetto conoscente a porre il conoscere?
Come soggetto conoscente, ripeto, io conosco il conoscere come TEORIA DELLA CONOSCENZA, mica lo pongo! Non posso porre il conoscere stesso, perché questo non esiste senza una precisa fisiologia corporea! Quindi non spetta a me creatura, porre o creare il conoscere, ma alla creazione. Io posso porre un principio a monte del mio filosofare, ma qualsiasi sia questo principio, creerò sempre una filosofia campata in aria: “finché la filosofia accetta tutti i possibili principi [...] resta sospesa in aria” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 3°, §31°).
Se Steiner fosse partito assiomaticamente dal concetto o dal principio del pensare non avrebbe operato scientificamente ma filosoficamente.
Invece il suo lavoro è scientifico, non una filosofia come le altre!
ECCO PERCHÉ IL PUNTO DI PARTENZA DESIGNATO DA STEINER (che Archiati non ha ancora capito, e lo aspetto al varco, ovviamente se è onesto con se stesso) NELLA SUA FILOSOFIA È IL PENSARE NON IL CONCETTO DEL PENSARE: “È necessario tenere presente che il punto di partenza designato qui è il PENSARE, e non i CONCETTI e le IDEE, i quali sorgono soltanto attraverso il pensare [...]. (Faccio espressamente notare questo perché qui sta la mia differenza con Hegel. Questi pone il concetto come elemento primo ed originario)” (ibid., cap. 4°, §1°).
Come mai Pietro Archiati non è ancora riuscito a capire che il pensare di cui parla Steiner non è un concetto ma un’esperienza?
La ragione è molto semplice: Archiati non comprende che Steiner non parte da un assioma perché per sua stessa ammissione: “nessun pensiero può compiersi senza assiomi” (Pietro Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa - Roma - dal 14 al 17 febbraio 2008) ed evidentemente “La filosofia della libertà” è per Archiati una mera serie di pensieri... Dunque non si è ancora reso conto che Steiner è scienziato, PIÙ che un filosofo.
Archiati non comprende che se, come egli afferma, “nessun pensiero può compiersi senza assiomi” (ibid.) poiché gli assiomi sono principi filosofici, quindi dei “pensati”, per forza di cose ciò significherebbe che tale partire da tali principi filosofici o assiomi, sarebbe partire da “pensati”!
La filosofia della libertà di Steiner è invece scienza della libertà in quanto OSSERVAZIONE DELL’ATTIVITÀ INTERIORE (O OSSERVAZIONE ANIMICA) SECONDO IL METODO DELLE SCIENZE NATURALI!
Dunque Steiner parte, sì, dal pensare ma da un pensare che non è da non intendersi come idea del pensare. Steiner parte bensì dal pensare come esperienza, come esperimento! In tale contesto il conoscere, ripeto, non si può porre, ma solo scoprire.
I concetti appartengono alle cose. Perciò vanno SCOPERTI, non INVENTATI alla Fichte o all’Archiati, perché tale loro inventare non può che avere come oggetto le solite fregnacce, i soliti ideologismi, il solito comunismo, il solito nazismo, ecc.
Anche Giovanni Gentile, a differenza di Hegel, prese il pensare come punto di partenza, ma lo prese come “punto di partenza” di un sistema filosofico (l’“attualismo”), e non, come Steiner, di un’“osservazione animica secondo il metodo delle scienze naturali”. La “riforma dialettica hegeliana” di Gentile (che Archiati si vanta di avere studiato) comprendeva un saggio intitolato “L’atto del pensare come atto puro”. L’atto del pensare ha però senso solo se lo si sperimenta, e perde di senso se lo si concettualizza o lo si sistematizza. Ed è questo che continuano a fare i fresconi come Pietro Archiati e la sua band!.
Così come il “punto di partenza” dell’attualismo gentiliano non è costituito dall’atto del pensare, bensì dall’idea dell’atto del pensare, allo stesso modo il punto di partenza di Pietro Archiati non è costituito dall’osservare pensante della dinamica attiva fra percezione e concetto, ma da un pensiero, cioè da un pensato, quello della percezione pre-giudicata come inganno da superare (Pietro Archiati, "La percezione un Inganno da superare", venduto dalla Rudolf Steiner Edizioni!).
Ciò che vale per Gentile vale anche per Archiati (anche se Archiati non vale nemmeno una virgola di Gentile) e per ognuno di noi nella misura in cui confondiamo il pensare col pensato: una cosa infatti è il pensare vivente, altra il pensiero del pensare vivente. Questa osservazione non mette in luce solo i limiti dell’“attualismo”, o dello “steinerianismo fichtiano” di Archiati, ma anche quelli di tutta la speculazione filosofica mondiale.
Archiati, da me soprannominato Archiagottlieb, continuando invece ad improvvisare i suoi concetti, creandoli dal nulla secondo una fantasia speculativa incapace di distinguere l’osservare scientifico dal favoleggiare, arriva perfino a proporre la creazione di gruppi di studio per aggiustare la terminologia della filosofia della libertà, in quanto Steiner secondo lui “andrebbe a spanne generando confusioni e fraintendimenti filosofici, che mai un filosofo come Rosmini avrebbe generato”.
Se si approfondisce un po’ la cosiddetta “Dottrina della scienza” di Fichte ci si rende conto che con Steiner i “conti” di Fichte non tornano; quindi predicare l’antroposofia fichtiana per aggiustare Steiner… è roba da matti. Sarebbe meglio che coloro che vogliono cambiare il mondo in tal modo cambiassero prima se stessi.

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6 novembre 2013 3 06 /11 /novembre /2013 12:10

Chi pensa che i nostri contenuti percettivi siano delle NON REALTÀ, e pensa come REALTÀ solo le loro forme e movimenti in quanto dati dallo spirito (spiriti della forma, del movimento, angeli, arcangeli, cherubini, ecc.) approda al solito monismo fasullo che si limita a ridurre uno dei due termini del dualismo all’altro (i due termini del dualismo sono la percezione ed il concetto; la prima riguarda i contenuti del mondo; il concetto riguarda il nominalismo che li evoca). Egli usa in tal modo occhiali che deformano ogni cosa del mondo percepibile, dal contenuto di un libro al contenuto di un bernoccolo (vedi per esempio la lectio di Archiati sul bernoccolo).

Questi occhiali deformanti - che fanno apparire realtà NON il contenuto MATERIALE degli oggetti di percezione ma solo il loro IMMATERIALE concetto - sono il risultato di un vero e proprio contenuto di fede.

Nel caso degli occhiali deformanti di Pietro Archiati si può mostrare come essi siano il risultato della sua fede nella “Dottrina della scienza” di J. Gottlieb Fichte, e soprattutto nell’io, inteso come “primo principio fondamentale in tutto e per tutto incondizionato” (“Fichte Fondamento dell’intera dottrina della scienza”, a cura di Guido Boffi, Parte 1ª: “Principi fondamentali dell’intera dottrina della scienza”, p. 139).

Da ogni essere umano l’io può essere sentito, cioè percepito, come sovrasensibile autopercezione di sé, ma non come principio da credere o da accettare a priori. Perché fra tutte le cose del mondo l’io umano è l’unico oggetto di percezione che può essere percepito come cosa in sé. Dal momento in cui lo si trasforma in un principio o in un presupposto da credere a priori, lo si concettualizza, e in tal modo non lo si sperimenta.

Voglio chiarire questa importante cosa partendo dal principio “io” di Fichte.

Questo “primo principio” o presupposto assoluto dell’io [absolutes Ich], «struttura apriorica fondamentale caratterizzata costitutivamente da autoposizionalità e il cui originario, infinito porsi ha per contenuto l’essere» (ibid. p. 671) pretende essere “in tutto e per tutto incondizionato” ma è condizionato almeno grammaticalmente da Fichte: «nell’io è posta, infatti, l’“assoluta totalità della realtà”» (ibid.), ma in questo modo il suo essere senza condizioni principia dialetticamente da un condizionale, e precisamente dalla congiunzione dubitativa “se” della proposizione di partenza: “se A è, allora è A”, a sua volta posta da un imperativo, cioè dal “si ponga”, imperativo del verbo “porre”: “si ponga: se A è, allora è A” (“man setzt: wenn A sei, so sei A”, GRUNDLAGE DER GESAMTEN WISSENSCHAFTLEHERE als Handschrift für seine Zuhörer von Johann Gottlieb Fichte, 257, in “Fichte Fondamento, op. cit. p.142).

Dunque, fino a prova contraria, tutta questa “assoluta totalità della realtà” che Fichte pone imperativamente come incondizionata dialettica, poggia sulla congiunzione dubitativa “se” implicita ad ogni verbo condizionale!

Non c’è dunque da stupirsi se questo modo obsoleto di procedere di Fichte fu considerato dai suoi allievi, nonché dal suo pubblico deluso, rozzo e “rétro”. Ecco per esempio cosa Schopenhauer, discepolo di Fichte pensava del suo maestro: “Nel vecchio teatro delle marionette tedesco, a lato dell’imperatore o di un eroe qualsiasi, c’era sempre un pagliaccio (Hanswurst) che ripeteva, alla sua maniera ed esagerando, tutto ciò che diceva o faceva l’eroe: così dietro il grande Kant si ritrova l’autore della Wissenschaftslehre [Dottrina della scienza] o, più esattamente, della Wissenschaftsleere [Vuoto della scienza]” (A. Schopenhauer, “L’arte di insultare”, Adelphi, Milano 1999, p. 64).

Oggi qualcosa del genere potrebbe essere detta della dottrina di Pietro Archiati sul suo concetto di percezione intesa come inganno (Pietro Archiati, “La percezione un inganno da superare”) da lui predicata, fra l’altro, come scienza dello spirito a carattere antroposofico o, peggio ancora, come filosofia di Rudolf Steiner.

Ma la percezione sperimentata non è il concetto di percezione meramente pensato!

L’ATTIVITÀ DEL PENSARE SU CUI SI FONDA “LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ” DI STEINER NON È UN PRESUPPOSTO come quello che esiste nella Wissenschaftslehre: È UN’ESPERIENZA. Se fosse un presupposto sarebbe infatti un PENSIERO (un concetto o un’idea) o un PENSATO (una rappresentazione) e non il PENSARE.

Chi scambia IL PENSARE COL CONCETTO O CON L’IDEA DEL PENSARE finisce, volente o nolente, col trasformare l’antroposofia in una dottrina, e se stesso in un individuo che “crede” nel pensiero vivente, o eterico, anziché sperimentarlo. E questa è un’aberrazione. Perché Steiner non ha bisogno di fede in Steiner.

Nella scienza dello spirito a carattere antroposofico non si tratta di presupporre, né di credere, ma di osservare e pensare: in una parola, di SPERIMENTARE.

L’ERRORE DI PIETRO ARCHIATI STA PROPRIO NEL CREDERE E NEL PREDICARE POSSIBILE LA CREAZIONE DI UN PENSARE PERFETTO PERCEPIBILE CONTEMPORANEAMENTE AL SUO CREARLO. Questa è davvero una cosa impossibile ma è proprio così che egli crede di poter fare: “[io] posso creare il concetto di un pensare perfetto che si percepisce e si guarda nel mentre crea!” (Pietro Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa - Roma - dal 14 al 17 febbraio 2008). MA IL CONCETTO DI TALE PENSARE PERFETTO È UN CONCETTO, UN PRINCIPIO, UN PRESUPPOSTO, UN PENSATO. NON È PENSARE, NON È L’ESPERIENZA DEL PENSARE!

Scrive Steiner: “Finché la filosofia accetterà tutti i possibili principi come atomo, movimento, materia, volontà, inconscio, resterà sospesa in aria” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 3°, §31°).

La metafisica parte da principi primi o da fondamenti assoluti, deducendone poi il resto. Quindi parte dall’essere per arrivare all’esistere. Non così per la scienza di Steiner.

La scienza di Steiner (prima parte de “La filosofia della libertà”) parte dall’esistere per arrivare all’essere. Il che non è facile, dato che chi parte dall’essere arriva di solito all’esistere in modo astratto, mentre chi parte dall’esistere perviene in modo astratto all’essere oppure neanche vi perviene. Perciò lo nega.

Il processo del creare è l’inverso del processo del conoscere, dato che il processo del CREARE va dall’invisibile al visibile, mentre il processo del CONOSCERE va dal visibile all’invisibile.

Invece Pietro Archiati mischia le cose quando parla di creazione della conoscenza dicendo: “[…] questa creazione della conoscenza umana che congiunge percezione con concetto è una creazione specifica dal nulla dell’essere umano, dello spirito umano […]”. Questa affermazione è una cazzata, anzi, è una pseudologia fantastica.

Steiner non ha inventato né creato dal nulla alcunché della conoscenza, propria dell’autentico vero monismo (antico ma moderno come quello di Giordano Bruno, per intenderci) che congiunge oggetto di percezione e concetto. L’ha osservata! Osservandola ha scoperto che era ed è giusta, e che in quanto tale era ben diversa da quella del suo tempo, impestata di kantismo oscurantista.

Quella di Steiner era ed è gnoseologia. Quella di Pietro Archiati è invece pseudologia.

Insomma, se io mi metto concretamente a dipingere devo innanzitutto pensare a quello che voglio dipingere. Poi dipingo, e infine osservo ciò che ho dipinto. Il mio atto creativo ha trasformato una realtà INTELLIGIBILE (da un’IDEA invisibile) in una realtà PERCEPIBILE (in una COSA visibile). Non così l’atto conoscitivo!

L’atto conoscitivo fa esattamente il contrario: trasforma una realtà PERCEPIBILE (dai sensi) in una realtà INTELLIGIBILE.

Infatti se mentre dipingo voglio osservare quanto ho dipinto devo SMETTERE di dipingere, indietreggiare di qualche passo, e compiere l’osservazione. In altre parole non ho un collo allungabile come quello di Tiramolla o di Archiati, cioè come quello presumibile nel fantastico concetto da lui “razionalizzato” e predicato come “pensiero divino in quanto conseguenza ultima del pensare in quanto ci è percepibile e pensabile dall’uomo” (Pietro Archiati, cit.). Qui vi è solo pseudologia, pseudologia fantastica, cioè palle, non gnoseologia.

Non andrebbero confusi i “pensati” (immagini pensate) col pensare che le elabora. Detto con le parole di Steiner: “Non andrebbe confuso l’avere immagini di pensiero con l’elaborazione di pensieri attraverso il pensare. Immagini di pensiero possono sorgere nell’anima con carattere di sogno, come vaghe suggestioni. Questo non è un PENSARE” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 3°, Aggiunta alla nuova edizione del 1918, §1°).

Prima di predicare “La filosofia della libertà” come se “La filosofia della libertà” fosse una mistica, Archiati dovrebbe imparare ALMENO a distinguere il pensare (“l’elaborazione di pensieri attraverso il pensare”) dal pensiero capriccioso, ludico e vagabondo della propria natura “stenica” (“isterica”) in quanto misticamente istrionica, a volte anche mascherata da quella ruminante, coatta e molesta in quanto “astenica” (“nevrastenica”), che spesso non si accorge nemmeno, nella sua presunta e saccente “coscienza divina”, di offendere l’intelligenza di chi, ignaro, crede di ascoltare da lui l’antroposofia.

Invece questo predicatore di mistiche non solo non riesce a padroneggiare il pensiero senza alterarsi con qualcuno ma arriva perfino a utilizzarlo per “razionalizzare”, cioè per mascherare o occultare i veri motivi delle proprie modalità isteriche o nevrasteniche di predica confusa in quanto sempre fichtiana.

La raccomandazione sopra accennata di Steiner di non confondere “l’avere immagini di pensiero con l’elaborazione di pensieri attraverso il pensare” vale ovviamente per tutti ma vale soprattutto per i presuntuosi che predicano ciò che non andrebbe neanche predicato, o che tutt’al più andrebbe predicato come qualcosa da sperimentare, non da concettualizzare e basta. Ecco perché Steiner parla spesso di esperienza del concetto, intendendo con ciò non l’esperienza di memorizzazione concettuale (nozionismo culturale) o il superficiale monismo negatore della realtà dei contenuti di percezione, bensì del medesimo monismo di Giordano Bruno, fondato - anche se in modo primitivo - sul quello stesso monismo di pensiero che troverà poi massima espressione consapevole nella “Filosofia della libertà” di Steiner, che spaventava e ancora spaventa la chiesa cattolica: “In nessun modo un corpo può agire su un corpo, né la materia sulla materia, né partì della materia e del corpo possono agire su altre parti, ma ogni azione proviene dalla qualità, dalla forma ed in definitiva dall’anima... Chi dunque sarà consapevole di questa indissolubile continuità dell’anima e che essa anima è stretta da una sorta di necessità [necessità ovviamente non ammessa dal fanatismo di J. Gottlieb Fichte, né da quello dei suoi neo-pappagalli - ndc], avrà un principio non incerto sia per operare che per riflettere con maggiore verità attorno alla natura delle cose... L’anima infatti abbandona il suo corpo alla fine della vita, ma non può certo abbandonare il corpo universale, né essere abbandonata da questo; abbandonandone uno, semplice e composto, si trasferisce in un altro, composto e semplice...” (Giordano Bruno, “De Magia”).

Non vi è sostanziale differenza fra questo monismo di Giordano Bruno e quello di Rudolf Steiner. Il loro è vero monismo. Chi non lo comprende e, ciò nonostante, si pone saccentemente come correttore terminologico delle presunte contraddizioni riscontrate nel monismo di Steiner è proprio Pietro Archiati, che afferma: “Non ho capito come mai (Steiner) non ha notato che c’era questa piccola contraddizione (in Steiner)” (Pietro Archiati, “Esistono limiti alla conoscenza?”, Ed. Pensarelibero, p. 282).

Anche questa questione è affrontabile tenendo in considerazione il fatto che l’antroposofia non è né filosofia del sentimento, né filosofia della volontà. Soprattutto non è una filosofia ma sempre un’esperienza. L’antroposofia è una via del pensare, che i sognatori trasformano in una via del sentimento, mentre i “palestrati” in una via della volontà. Quel che è peggio, è che tanto gli uni che gli altri, non potendo sottrarsi al pensiero, sono poi costretti a razionalizzare (spesso in modo saccente) ciò che impone loro la natura personale.

Il palestrato culturista che ama autoesaltarsi mostrandosi lucente nei suoi muscoli, è simile al “palestrato” culturale che ama autoesaltarsi mostrandosi saccente nelle sue “vertigini” concettuali (Cfr. ad esempio anche il mio scritto “Sulla vertigine di Pietro Archiati”) o nel suo abituale presentarsi come consumato dotto e agguerrito: “Ho studiato, a Roma e poi a Monaco, filosofia per dodici semestri e teologia per dieci. Lo vedete dai capelli che ho perso. A quei tempi le lezioni erano tutte in latino, ma noi eravamo ben agguerriti. Quasi tutti i professori erano gesuiti, era la massima scuola gesuita, la Gregoriana di Roma”, ecc. (Pietro Archiati, “Dalla mia vita. La mia esperienza con la Chiesa e l’Antroposofia”, Archiati Verlag, p. 8).

Questo suo vantarsi di essere dotto, i gratuiti suoi giudizi su Scaligero e le penose sue obiezioni a Steiner lo faranno prima o poi scoppiare come la rana invidiosa di Fedro:

«Grande non più d’un ovo di gallina
Vedendo il Bove e bello e grasso e grosso,
una rana si gonfia a più non posso
per non esser del bove più piccina.
“Guardami adesso, - esclama in aria tronfia, -
Son ben grossa?” - Non basta, o vecchia amica -
E la rana si gonfia e gonfia e gonfia
Infin che scoppia come una vescica»
(Fedro, versione di Jean de La Fontaine)

Ma per comprendere a fondo la pseudologia fantastica di questo palestrato saccente, occorre considerare qualcosa di essenziale che riguarda il pensare, il sentire ed il volere: queste tre facoltà agiscono sempre insieme, ma in un modo che varia al variare dei loro reciproci rapporti. Ognuna di queste facoltà svolge infatti, una volta, un ruolo DOMINANTE e, due volte, un ruolo SUBORDINATO. Mi spiego: quando si parla di “pensare”, si parla in realtà del sentire e del volere NEL pensare; quando si parla del “sentire”, si parla in realtà del pensare e del volere NEL sentire; e quando si parla del “volere”, si parla in realtà del pensare e del sentire NEL volere. Come si vede, ognuna di queste facoltà riveste, in un caso, un ruolo dominante e, negli altri due, un ruolo subordinato. Il pensare è “pensare” non perché non abbia nulla a che fare col sentire e il volere, ma perché li subordina e utilizza per la propria espressione. Il che implica che quando il sentire o il volere, anziché sostenerlo, lo scavalcano e gli s’impongono, il pensare non è più pensare. Che cos’è, del resto, la cosiddetta “pseudologia fantastica” degli isterici o che cos’è un delirio se non una deformazione prodotta appunto, nel pensare, dall’insubordinazione del sentire o del volere?

Ed il pensare di Pietro Archiati, fichtianamente, heideggerianamente, o steinerianamente indirizzato (come se Steiner fosse un filosofo come un altro), soprattutto quando improvvisa su ogni tema possibile dicendo tutto ed il contrario di tutto, assomiglia a quello dell'uomo moderno chiamato da Jung pensare-indirizzato-ma-disattento: l’uomo moderno si abbandona in larga misura al pensare fantastico, che subentra non appena il pensare indirizzato viene a cessare. Un allentamento dell’interesse, una lieve stanchezza sono sufficienti a mettere fine al pensare indirizzato, all’esatto adattamento psicologico al mondo reale, e a sostituirlo con fantasie. Ci allontaniamo dal tema e cediamo il passo al nostro corso di pensieri; se il rilassamento dell’attenzione si fa più forte perdiamo a poco a poco coscienza del presente e la fantasia prende il sopravvento (cfr. Carl Gustav Jung, “Libido, simboli e trasformazione”).

Nella mia pagina “Sul bernoccolo dello spirito”, consistente nell’indirizzo “monistico” di Pietro Archiati, per il quale la percezione è un inganno (Pietro Archiati, “La percezione un inganno da superare”) vi è un esempio di tale pensare un po’ indirizzato e un po’ fantasioso per la serie “un po’ di qui e un po’ di là” del comico Giorgio Panariello, con cui mediante continue e “saccenti” trasformazioni della materia in non materia Archiati trasforma il monismo in non-monismo. Ecco perché Pietro Archiati crede monismo qualcosa di ben lontano dal monismo. E tutto avviene in base ad un principio creduto, come quello del primo principio di Fichte, bufala che non sta in piedi se non come costruzione di pensieri senza alcun contenuto di esperienza.

Il vero monismo è sintesi di una preparatoria e rigorosa analisi. Quelli che oggi sovente si chiamano monisti - dice Steiner - col loro monismo semplificano davvero le cose. Essi prendono una parte del mondo e ne fanno un’unità, gettando via l’altra parte. Il vero monismo nasce dal fare che le due metà sensatamente si compenetrino. Cosa potrà mai significare per Pietro Archiati il termine «sensatamente» in merito alle dinamiche della percezione qui intese?

Se ci si prova a muovere in una stanza ad occhi chiusi, cosa avviene? Avanziamo protendendo le braccia, e a un certo punto tocchiamo qualcosa. Per il solo fatto di avere toccato qualcosa siamo in grado di formulare il seguente giudizio: “Qui qualcosa c’è!”. Dunque sappiamo che lì QUALCOSA C’È, MA NON SAPPIAMO ANCORA DI CHE COSA SI TRATTA. In cosa consiste allora l’esperienza fatta? Consiste nel vivo incontro del nostro essere con l’essere della cosa. Tale giudizio, detto da Steiner “giudizio di percezione”, scaturisce in modo immediato dall’impatto tra la forza del soggetto e quella dell’oggetto.

A cosa servono le saccenti esibizioni di Pietro Archiati, cioè tutte le sue rappresentazioni di scienza dello spirito fissate nella memoria come idee morte se non per riesumarle poi all’occorrenza per negare realtà alla percezione?

Ma l’oggetto di percezione c’è, e “l’enunciazione più semplice che posso fare di una cosa è che ‘è’, che esiste” (R. Steiner, “La filosofia della libertà, cap. 3°, §19).

Ciò che più conta è proprio questo, dato che è proprio da questa esperienza che il percepire trae la sua forza probativa. Non si cercano forse dei testimoni oculari? Si vuole vedere con i propri occhi, udire con le proprie orecchie o toccare con le proprie mani.

Il percepire è dunque garanzia del mondo REALE, mentre il pensare è garanzia del mondo IDEALE.

Il problema nel monismo di Archiati consiste nel negare realtà ai contenuti materiali della percezione per affermarla in quelli immateriali dei concetti. E questo è uno stridore tutto suo, non di Steiner, che criticava il monismo dei suoi tempi ma non quello autentico dei tempi antichi, di Giordano Bruno per esempio.

Invece per il predicatore di professione Archiati, Steiner crea solo problemi. E lo vediamo quando il predicatore proietta uno stridore tutto suo e dovuto alla sua comprensione deficiente su Steiner, ponendosi sopra la sua scientificità, addirittura con l’intento di correggerne la terminologia: “C’è una piccola cosa stridente, se volete, una piccola contraddizione - cosa che se Steiner avesse la possibilità di fare una nuova edizione della Filosofia della Libertà, gli direi: correggi ciò che, insomma, crea soltanto problemi. Verso l’inizio del libro, Steiner chiama “monismo” un modo di pensare, una filosofia, che lui non fa sua, che è sbagliata! [… ] e poi, ora, in questo capitolo, “monismo” è la sua teoria! D’accordo?! […] c’è questa discrepanza tra ciò che Steiner chiama “monismo” all’inizio della Filosofia della Libertà e ciò che chiama “monismo” qui, alla fine della prima parte. Sono due cose ben diverse! Però, concedetemi, che è una pura questione di terminologia. Non ho capito come mai (Steiner) non ha notato che c’era questa piccola contraddizione” (Pietro Archiati, “Esistono limiti alla conoscenza?”, Ed. Pensarelibero, pp. 281-282).

Dice bene qui Archiati: “Non ho capito”! Ma perché non capisce?

Non capisce perché si identifica con una concezione filosofica, e così facendo, non può capire qualcosa in senso scientifico, dato che ogni altra concezione la vive come minacciosa. Non perché questa minacci la sua concezione ma perché minaccia la sua identità. E questa è la genesi dei suoi dogmatismi, fanatismi e dell’intolleranza che caratterizzano i nemici dell’io e dello spirito scientifico.

Fra filosofia e scienza vi è differenza QUALITATIVA, che Pietro Archiati evidentemente non percepisce, attento com’è a evitare che nel suo sistema vi siano contraddizioni. Somiglia a quei musicisti del solfeggio, attenti ad evitare che nelle loro composizioni vi siano teoriche stonature, non perché le percepiscano ma perché così sta scritto nei manuali di armonia.

Gli scienziati (o i veri musicisti) si aprono invece a tutti quegli stimoli che sono per il filosofo o per l’ideologo solo di disturbo. In loro è attiva una forza che porta il pensare incontro al mondo e alle cose (o al mondo sonoro)! Non si preoccupano di elaborare dei coerenti sistemi concettuali (o giri armonici perfettamente predefiniti o prefissati), ma di penetrare i fenomeni del mondo per scoprire le leggi che li governano.

O Archiagottlieb, il tuo “divino” agitarti contro la percezione ha meno valore delle affermazioni del divino Otelma! Il tuo “io”, quale entità spirituale, può incontrare il mondo sensibile solo per mezzo del corpo. Se vuoi vedere una cosa devi servirti degli occhi, se vuoi udirla devi servirti delle orecchie. Negando la realtà del corpo o della materia introiettando in te i contenuti delle cose o le cose stesse, affermi solo la realtà immateriale dell’io, ma la imprigioni in se stessa… Perciò sei SPINTO A RIMANERE FERMO, COME INCATENATO, CON LA TUA VISIONE DEL MONDO, ALL’INTERNO DELL’ATTIVITÀ DELL’“IO” STESSO (cfr. R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 2°, §7°). Svegliati, che è ora. Lascia il concilio di Trento e la massoneria di Fichte… E cerca di liberarti veramente come uomo del terzo millennio…

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6 novembre 2013 3 06 /11 /novembre /2013 09:14

L’incredibile lectio di Archiati “sul bernoccolo”

J. Gottlieb Fichte, avviandosi a riflettere sul suo “assolutamente primo, in tutto e per tutto incondizionato principio fondamentale” (Fichte, “Fondamento dell’intera dottrina della scienza”, Bompiani, Milano 2003, p. 139), parte dalla proposizione “A è A” scrivendo che ognuno può ammetterla “sicuramente senza rifletterci più di tanto: la si riconosce come totalmente certa e stabilita” (ibid., p. 141).

Con ciò egli crede di attribuirsi “il potere di PORRE QUALCOSA IN ASSOLUTO” (ibid.).

Ma vaneggia soltanto. Questa è una vera cazzata, ed oltretutto pone le basi per una dialettica totalmente priva di contenuti reali.

Cerco di spiegarlo.

Se tu affermi che “A è A” e lo fai riflettendo sul fatto che io non vi rifletto più di tanto per ammettere quanto affermi, cosa fai in realtà? Rifletti sulla probabilità che io non vi rifletta per potermi così imporre che “A è A” come assoluto senza condizioni.

Però se io rifletto incomincerò col chiedermi: perché mai costui vuol parlarmi per assoluti? Perché assolutizza la sua proposizione iniziale “A è A”? Che bisogno ha di dire che A è A o che rosso è rosso, o che tavolo è tavolo? È forse un cretino che parla senza gli articoli? Perché parla senza grammatica? Forse che in tedesco si parla senza articoli? No, in tedesco gli articoli si usano, eccome!

Solo che nella sua proposizione di partenza Fichte non li usa. Usarli significherebbe affermare che da qualche parte, lì su quel pezzo di carta, o là sulla lavagna, c’è “una A”, cioè inchiostro su carta o gessetto sulla lavagna. Ma Fichte non vuole affermare questo, perché non vuole “materiali”, NON VUOLE MATERIA. A lui interessa solo che la forma di una cosa sia riconosciuta senza il suo contenuto di sostanza.

Dunque Fichte scrive: “La proposizione ‘A è A’ non è affatto equivalente a ‘c’è una A’ […]” (ibid. p. 143), aggiungendo in modo esplicito che con ciò “non si pone in questione il ‘contenuto’ della proposizione, bensì semplicemente la sua ‘forma’” (ibid.).

Ciò significa che a Fichte interessa solo affermare una connessione formale fra termini privi di contenuto.

Gli interessa ciò che perfino gli americani (che sono i campioni di superficialità) chiamano aria fritta, cioè connessioni di aria fritta.

E Fichte si muove proprio in tali connessioni di aria fritta, vale a dire in un ambito privo di concretezza del pensare, dunque nel mero ambito del pensare astratto.

Non distinguendo fra pensare astratto e pensare concreto, si può così dimostrare tutto e il contrario di tutto ma solo a parole, cioè solo in modo nominalistico.

Questo modo “parolistico” di procedere negando la sostanza delle cose, è tipico di coloro che credono che il pensare sia totalmente astratto, e che in base a questo pregiudizio parlano poi di spirito o di idealismo.

Questo tipo di spiritualismo o di idealismo è in fondo solo negazione della sostanza del mondo reale, quello in cui se batti la testa contro il muro ti viene un bernoccolo.

Ebbene chi, come un pappagallo, segue pedissequamente J. Gottlieb Fichte nelle sue astrazioni e si impadronisce del suo formalismo dialettico è oggi il predicatore di professione Pietro Archiati, che di formalismo in formalismo riesce a dimostrare che l’acqua è asciutta o che la formazione di un bernoccolo non è la formazione di qualcosa di concreto, ma che è sempre la formazione di qualcosa di immateriale…

Quanto segue è l’incredibile lectio di Archiati “sul bernoccolo”.

Si tratta di una risposta data ad un’ascoltatrice che al suo spiritualismo assoluto obietta “Quando io sbatto contro il muro tu non mi puoi dire ‘La materia non è una realtà’; e senza muro la protuberanza non sorge!”.

Ecco come Archiati procede per negare la realtà del bernoccolo.

«“Quando io sbatto contro il muro tu non mi puoi dire ‘La materia non è una realtà’”? Non c’è mai stato nessuno che ha sbattuto contro il muro. Non esiste proprio. È un modo del tutto rudimentale, infantile, di esprimere il fenomeno. Ci sono stati esseri umani che hanno vissuto il dolore di una protuberanza fisica. Ma il dolore è una realtà, non il muro! “Ma senza muro la protuberanza non sorge”? E allora cos’è il muro? La scienza dello spirito è un po’ più difficilina della scienza naturale perché complessifica le cose. Allora Steiner direbbe [sentite questa cazzata che il signor Archiati mette in bocca a Steiner - ndr]: ‘Un muro, la cosiddetta materia, sono spiriti della forma che sovrasensibilmente agiscono in certe direzioni. Fanno una struttura, diciamo, no? Ma una struttura di forze. La materia non c’entra nulla. Poi ci sono spiriti del movimento che portano, diciamo, questa… supponiamo che sia una struttura stabile. Tutto il fisico ha delle strutture e delle forme stabili, altrimenti sarebbero in metamorfosi. Ora lo spirito del movimento porta un essere umano in movimento e impinge in queste forze. Forze stabili della forma che impingono, che si scontrano, con forze in movimento, fanno sorgere il bernoccolo, il dolore, perché sono in contrasto fra loro. Vogliamo una forma stabile o vogliamo scioglierla? E questo dolore porta a coscienza il fatto che l’evoluzione è possibile soltanto in quanto interazione di forze opposte. Cos’è il bernoccolo? Una forma che fino a poco fa era fissa e che adesso è entrata in movimento! È così. Però la realtà, dietro, è sempre lo spirito. Non è la cosiddetta materia. Questo è il concetto fondamentale della scienza dello spirito. E senza questa interazione fra forza e controforza non ci sarebbe evoluzione. Non ci sarebbe neanche coscienza. Perché come faccio io a portare a coscienza che qui c’è un contrasto fra forma e movimento? Attraverso il dolore. Perché se io non sentissi nulla, non avvertirei nulla. Sento col dolore il contrasto tra forma, che in quanto forma deve stare un pochino ferma se no…, e il movimento, che scioglie la forma» (Pietro Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa (RM) dal 14 al 17 febbraio 2008).

Evidentemente Archiati non riesce a liberarsi dei suoi bernoccoli, cioè dei suoi pregiudizi di idealismo assoluto, e parla per bocca di Steiner, proprio come fanno i medium che parlano per bocca di un altro. Archiati spiega anche così, da medium, il pensiero di qualcuno spacciandolo per quello di qualcun altro.

Steiner però mai disse e mai si sarebbe sognato di dire o di scrivere simili astrazioni concettuali finalizzate a negare la materia. L’opera di Steiner propone un monismo, che nulla ha a che fare col monismo di coloro che negano la materia in nome dello spirito (o il contenuto percettivo in nome del concetto): “Un concetto astratto non ha di per sé realtà alcuna, così come non ce l’ha una percezione di per sé […] Solo il collegamento di ambedue, la percezione che si incorpora nell’universo conformemente a regole, è realtà piena. Se consideriamo la mera percezione di per sé non abbiamo alcuna realtà, bensì un caos sconnesso; se consideriamo di per sé la conformità della percezione a regole, allora abbiamo a che fare soltanto con concetti astratti. Non il concetto astratto contiene la realtà, bensì invece l’osservazione pensante la quale non considera unilateralmente di per sé né il concetto, né la percezione, ma la connessione di ambedue” (R. Steiner, “Gli ultimi problemi. Le conseguenze del monismo”, §1, in “La filosofia della libertà”).

Chi è allora quest’altro che Archiati vorrebbe far parlare mentre predica Steiner? È J. Gottlieb Fichte.

Parlando per bocca di Steiner - che invece, ripeto, è GOTTLIEB FICHTE il quale, come ho mostrato prima, NON VUOLE MATERIA - Archiati gli fa dire che la materia sarebbe spirito; spirito che, in quanto immateriale, non c’entra nulla con essa; gli fa dire che il bernoccolo sarebbe il risultato dello scontro dello spirito con se stesso, e precisamente dello scontro fra se stesso in quanto forma immateriale e se stesso in quanto movimento immateriale; e gli fa dire che il dolore sarebbe il generatore di coscienza dell’interazione di forze opposte in quanto in evoluzione!

Secondo questa esaltata visione di forze opposte che si scontrano in questa strana evoluzione in cui l’uomo avrebbe solo la parte del dolore, la scienza dello spirito sarebbe più difficile di quella naturale in quanto, anziché comprendere le cose, le renderebbe più complesse di quello che sono.

Dunque la scienza dello spirito sarebbe per Archiati come una specie di UCAS, “Ufficio Complicazioni Affari Semplici”!

Da tale ufficio proviene la confusione di chi, avendo frainteso “La filosofia della libertà” di Steiner come “Dottrina della scienza” di Fichte, proietta tale confusione su Steiner: “Steiner usa di solito il termine «monismo» (Monismus) a indicare il proprio pensare, ma questo termine può dar adito a confusione. Infatti, nel secondo capitolo del suo libro egli stesso chiama monismo quella teoria errata, che vuol ridurre il reale o alla sola materia (negando lo spirito) o al solo spirito (negando la materia). Sarebbe stato meglio, secondo me, se Steiner avesse distinto chiaramente la terminologia: o riservando il termine «monismo» per l’uso fattone nel secondo capitolo (e trovando allora un altro termine per la propria visione); oppure riservando il termine di monismo a sé, senza usarlo per teorie diverse dalla sua, o addirittura opposte. Si tratta qui però di una pura questione di terminologia, che non tocca il contenuto dell’opera”. (Pietro Archiati, “Libertà senza frontiere” p. 200).

Archiati, dunque, che pur dimostrando di non avere capito nulla e ciò nonostante volendo ugualmente spiegare e predicare, arriva all’alienazione essenziale per cui da’ del confusionario a Steiner… “Cretinismus” imperat!

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5 novembre 2013 2 05 /11 /novembre /2013 12:35

Da anni Pietro Archiati, predicatore di professione, predica imperterrito, e con precisione millimetrica, la dottrina della scienza di J. Gottlieb Fichte, spacciandola per la scienza dello spirito di Rudolf Steiner. La cosa che più meraviglia non è tanto lo spaccio, ma le dissimulazioni di questo falsificatore nel promuovere il comunismo giuridico proibizionista di J. Gottlieb Fichte come fossero intenzioni di Steiner.

Ciò dimostra che la sedicente società antroposofica è composta solo di accaniti businessmen.

Questo è comunque il mio parere, basato su quanto segue.

Premetto comunque che io non ho nulla contro l’idea del comunismo. Sono convinto, anzi, che essa potrà concretamente attuarsi solo a partire dall’idea di una triplice articolazione dei poteri dell’organismo sociale. Ciò significa che potrà realizzarsi solo dal basso, cioè dall’individuo, dal singolo. Chi vede tale realizzazione dall’alto del diritto di Stato persevera nell’errore. La storia ha dimostrato che lo STATO ETICO promosso da Fichte, Shelling, Hegel, è un’astrazione utopica che non si realizza. Credo che solo l’INDIVIDUALISMO ETICO promosso da Rudolf Steiner possa generare un organismo sociale a misura d’uomo proprio anche in senso fisiologico…

Il 21° capoverso del 3° capitolo della filosofia della libertà di Steiner intitolato “Il pensare al servizio della comprensione del mondo” inizia con la seguente domanda: “Quando nel mio pensare io vi intesso un oggetto che è dato senza la mia collaborazione […] in che modo è possibile che il mio pensare abbia una relazione con l’oggetto?”.

Per spiegare queste parole di Steiner, Archiati afferma che il pensare è creazione dal nulla e dice: “L’elemento che pensa sulla natura lo crea dal nulla l’uomo. Il pensare umano è una creazione dal nulla compiuta dallo spirito dell’uomo” (Pietro Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa (RM) dal 14 al 17 febbraio 2008).

Questa affermazione potrà anche essere valida per qualcuno che si crede capace di pensare senza contenuti di pensiero. Se però si riflette sul suo contenuto si vede che essa non sta in piedi: se ne scorge l’inconsistenza perché un pensare senza oggetti - cioè senza i pensieri degli oggetti - non può esistere. Un pensare, inteso come creazione dal nulla, non può che essere un pensare senza oggetti del pensare, e dal momento che si pone la natura come oggetto del pensare, si pone un oggetto di percezione che in quanto tale È qualcosa. E se è qualcosa, non è un nulla.

Qualcosa è un nulla solo reputando le cose un nulla, o disprezzando il mondo, cioè ponendo il mondo alla maniera di J. Gottlieb Fichte, il quale proprio come Archiati nega la realtà del mondo per affermare la realtà dell’io, assolutamente libero in quanto attivo, e quindi reale e quindi attivo. Sì, perché la realtà e l’attività per J. Gottlieb Fichte coincidono: “attività [Tätigkeit] per Fichte coincide con la realtà, anzi i due concetti sono identici: attività è realtà, realtà è attività” (“Fichte Fondamento dell’intera dottrina della scienza” a cura di Guido Boffi, Ed. Bompiani, Milano 2003, pag. 669). Ecco perché l’uomo passivo è per Fichte mera espressione del patire [Leiden], l’“opposto dell’attività, la negazione positiva e quantitativa della sua realtà” (ibid. pag. 672).

Insomma, secondo Fichte “la determinatezza del dovere morale appare come una determinatezza che deve essere prodotta dall’io” (Giovanni Cogliandro, “Organismo e determinazione: il corpo nella dottrina della scienza di Fichte”, Etica & Politica / Ethics & Politics, XIII, 2011, 2, pag. 93). E scrive: “Io mi trovo come tale né limitato né illimitato, ma solamente libero, determinabile all’infinito da me stesso, e mediante tale predicato dell’io, ogni essere, ogni sussistere, ogni essere statico ne restano esclusi” (Wissenschaftslehre NM-H, pag. 227, in ibid.).

Attraverso l’idea di “creazione dal nulla” usata da Fichte “per designare la libertà” (ibid., nota 27, pag. 95), Archiati predica la filosofia della libertà di Steiner, anche se per Steiner libertà, individualismo etico, e fantasia morale non c’entrano nulla con la “creazione dal nulla”.

La creazione dal nulla di Archiati è comunque una sua mera rappresentazione campata per aria, dato che afferma: “la creazione dal nulla non è il concetto che non ci sia assolutamente nulla prima di questa creazione [... ma] significa che la legge e la forza di ciò che c’era prima viene annientata, viene disgregata, viene annullata” (Pietro Archiati, “Cristianesimo e reincarnazione”, Roma 22 - 25 aprile 1994, pag. 137). Inoltre per lui tale annullamento riguarda “il sostrato precedente nella sua capacità di causare. Questa è la nullificazione; non è che sparisce del tutto: si nullifica la sua capacità causante in modo che tutta la capacità causante proviene dallo spirito” (ibid.).

Questa rappresentazione del “nulla-non-del-tutto-nulla” è però fuorviante, dato che il concetto di “nulla”, come ogni altro concetto, evoca un preciso contenuto, che rende possibile il dialogo. Se uno dice pane per intendere “pane-non-del-tutto-pane” e fa così coi suoi concetti, è impossibile comprenderlo, perché, dal momento in cui si pone un concetto spurio, tutto si intorbida ed ogni dialogo è reso impossibile, oppure diventa possibile solo in quanto settario.

Del resto è notorio che J. Gottlieb Fichte, nonostante usasse la sopra accennata espressione “creazione dal nulla” per designare la libertà, considerava la teoria della creazione dal nulla un’aberrazione. Anche da ciò si vede come Archiati faccia “salti mortali” per spiegare la scienza dello spirito di Steiner tramite la dottrina della scienza di J. Gottlieb Fichte, che di Giorgio Panariello fu precursore nello stile “un po’ di qui, un po’ di là” del politichese marcio.

Per Steiner l’azione morale non è mai un atto creativo che genera le cose dal nulla; l’azione morale per Steiner trasforma invece quelle esistenti: “L’azione dell’uomo non crea percezioni bensì modifica le percezioni che già esistono, conferisce loro una nuova forma” (R. Steiner, “La fantasia morale”, cap. 12° de “La filosofia della libertà”,§2°).

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4 novembre 2013 1 04 /11 /novembre /2013 12:19

Il 20° capoverso del 3° capitolo della filosofia della libertà di Steiner intitolato “Il pensare al servizio della comprensione del mondo” inizia con la seguente frase: “Quando si rende oggetto di osservazione il pensare, si aggiunge al rimanente contenuto del mondo osservato qualche cosa che di solito sfugge all’attenzione; il modo in cui l’uomo si comporta però, anche nei confronti delle altre cose, non si modifica”.

Non mi sembra un’affermazione difficile da capire.

Eppure, Archiati la illustra secondo l’aut-aut della logica binaria, quella delle macchine, dei computers, o della catena di montaggio, perfino postulando la possibilità di un salto a ritroso nel tempo come se esistesse una macchina del tempo funzionante, cioè capace di rendere possibile tale salto, sia pure per un “momentino”: “Venti [20° capoverso - ndr]: quando si prende il pensare come oggetto dell’osservazione, noi stiamo osservando il pensare. Stiamo facendo oggetto di percezione qualcosa che non è, non viene percepito ma prodotto direttamente, creato direttamente. Qui c’è un paradosso. Il pensare sul pensare è un paradosso. Perché il pensare sul pensare ci presenta il pensare come percezione, però scopriamo che non è percezione. Diventa percezione nel momento in cui è già pensato. È già pensato! Però accorgendomi di questo ho la possibilità di tornare indietro un momentino e di sorprendermi mentre penso. E mentre penso, il pensare non è una percezione ma è un puro creare” (Pietro Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa (RM) dal 14 al 17 febbraio 2008).

Questa, sì, che è bella!

Il paradosso che l’intelletto rileva alla luce della logica “analitica”, usata da Archiati per spiegare la dinamica dell’osservazione del pensare, dimostra ancora una volta che tale dinamica non è stata da lui compresa.

È difficile comprendere “La filosofia della libertà” secondo quel “principio d’identità” (o di “non contraddizione”) caro ad Aristotele per cui se A è A e se B è B, allora A non è B e B non è A. Se chiamo A il pensare, e B, l’osservarlo, non posso - in base al principio di identità - dire che A è B, perché tale affermazione sarebbe una paradossale contraddizione.

Però il procedere in base al principio di “non contraddizione” è una logica che va sempre bene solo per la catena di montaggio o per un pensare senza alcun contenuto di esperienza, cioè disincarnato, come lo è ad esempio il pensare il J. Gottlieb Fichte. Tale pensare però non va sempre bene per l’essere umano incarnato.

Già la logica dialettica o speculativa di Hegel consentiva di scoprire che nel divenire A è B e che B è A dato che l’uno e l’altro non sono che due momenti del divenire (o dello svolgersi) di uno stesso concetto. Solo in virtù del movimento della ragione è possibile riunire quanto l’intelletto ha separato.

Con la logica meramente intellettuale è ovviamente difficile comprendere che solo in virtù del movimento della ragione è possibile riunire quanto l’intelletto ha separato dato che, con essa, l’intelletto e la ragione risultano sinonimi, e quindi non vi è alcuna differenza.

Ma così non è, dato che tanto per Goethe quanto per Steiner “la ragione è rivolta al divenire, l’intelletto al divenuto” (Goethe, "Detti in prosa" in R. Steiner, "Le opere scientifiche di Goethe”).

Diceva Goethe: “Che cosa è più difficile di tutto? Vedere con i propri occhi ciò che si ha sotto il naso”.

In effetti è così.

Ed Archiati, per spiegare l’osservazione del pensare, assolutizzando fichtianamente tanto il pensare quanto l’osservarlo, è costretto a rilevarne il paradosso e a risolverlo con un sognante salto a ritroso nel tempo come se ciò fosse possibile tramite una reale macchina del tempo… La pazzia galoppa…

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4 novembre 2013 1 04 /11 /novembre /2013 09:32

Il comunismo giuridico proibizionista di J. Gottlieb Fichte, ardentemente predicato da Pietro Archiati come scienza dello spirito a carattere antroposofico, poggia su una precisa CONDITIO SINE QUA NON, o condizione, senza la quale è impossibile vivere della propria creatività, vendendo i propri prodotti, per es., le proprie idee scritte nei propri libri: catturare il maggior numero di utenti compratori nei quali generare il bisogno di tali idee, bisogno che sarà bianco per i bianchi e nero per i neri, anche se il bianco è il contrario del nero.

La CONDITIO SINE QUA NON è quindi la capacità eristica di “appianare” la contraddizione dando un colpo al cerchio ed uno alla botte tramite il vetusto gioco del bastone e della carota. Ciò è possibile con la solita arte di assolutizzazione dei concetti, arte eristica come modo di avere ragione sui nostri simili vissuti sempre come avversari da trasformare in clienti.

A me pare che tutta la “filosofia” di J. Gottlieb Fichte sia improntata in definitiva al suo business da pennivendolo, mascherato da idealismo assoluto, e vorrei mostrarlo.

Se provo a immaginare qualcosa di statico e mi rivolgo poi alla fisica con tale immagine di staticità, devo subito ricredermi, dato che vengo a conoscere che gli atomi di ogni cosa sono tutti sempre in elettronico movimento.

Così mi accorgo che è impossibile sperimentare staticità anche in ogni concetto, dato che tutto ciò che penso lo posso sempre pensare meglio e che, inoltre, tutto si trasforma sia in me che fuori di me: il concetto di geocentrismo fu per esempio superato da quello di eliocentrismo ed ancora oggi quest’ultimo non è per nulla un concetto assoluto o assolutizzante.

Ciò significa che una filosofia statica, fatta di concetti immobili, definiti e finiti, morti insomma, non può esistere, perché la vita del pensare ovviamente non li reggerebbe. Anzi, li espellerebbe continuamente da sé. Dico “ovviamente” intendendo il pensare come mutante, evolutivo; in caso contrario, cioè procedendo per assoluti, niente muta.

In tal caso, l’ovvio non è più tale e abbisogna di essere detto. Ecco infatti che l’idealista assoluto Johann Gottlieb Fichte non può esimersi dal dire l’ovvio: “Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia non può entrare nulla di statico, immobile e morto. In essa tutto è azione, movimento e vita” (J. G. Fichte, Lettera privata del gennaio 1800). Se uno parla così, in definitiva è come se dicesse: “Stai attento nell’avere a che fare con uno come me, perché io cambio idea in quanto mi evolvo: io penso, mi evolvo e cambio idea”. E ciò è lodevole. Però diventa aberrante se questo modo di “evolversi” si trasformasse poi, per es., nel cabarettistico slogan “Qui lo dico e qui lo nego”.

Dall’iniziale legittimazione della Rivoluzione francese, ghigliottina compresa, e dall’affermazione della necessaria estinzione della “forma-Stato”, Fichte passò ben presto a rappresentare daccapo il suo radicale statalismo in “Der geschlossene Handelsstaat” (“Lo Stato commerciale chiuso”) del 1800, negando così la prima fase “giacobina” del suo pensare.

Tale suo ripensamento radicale, facendo a cazzotti con gli stessi suoi princìpi, apparsi nella sua “Dottrina della scienza” (“Wissenschaftslehre”) ebbe un fragoroso effetto comico sui suoi lettori, tanto che Schopenhauer, togliendo l’acca al termine “Wissenschaftslehre”, la chiamò “Wissenschaftsleere”, che significa “Vuoto della scienza”.

Il “Vuoto della scienza” di Fichte è infatti null’altro che “scilipotismo”: puro scilipotismo, di cui Fichte fu massimo pioniere di genuina comicità in quanto filosoficamente giustificata.

Oggi quest’ultima impera perfino nella sedicente società antroposofica, che si è fatta recentemente propugnatrice del comunismo giuridico proibizionista di Fichte, predicato ad una massa di persone ignare, che la crede filosofia della libertà!

Abbiamo dunque un “primo Fichte”, corrispondente al “qui lo dico” giacobino, sovversivo, e nemico dello Stato, e questa era l’immagine che di lui veniva veicolata negli ambienti conservatori, ed un “secondo Fichte”, quello che, dopo la batosta dell’essere stato allontanato dalla sua cattedra, si reinsedia nell’Università, del tutto riconciliato con lo status quo, predicando la necessità di uno Stato forte e sovrano, commercialmente chiuso e organicisticamente strutturato.

Il “secondo Fichte”, nel suo caratteristico “qui lo dico e qui lo nego”, terminava dunque di predicare la necessità di estinguere la “forma-Stato”, e iniziava “scilipotisticamente” a predicarne un’altra, quella della forza sovrana della “forma-Stato”.

Per coniugare questa sua svolta teorica con l’immagine presentata prima come “filosofia della trasformazione” e della libertà, per sua vocazione avversa al dogmatismo e all’inerzia, Fichte si appellava a Kant, in nome dell’assoluto, consapevole ora che la morale trasformazione assoluta non avrebbe mai potuto darsi (ma non poteva esserne consapevole prima?). Era stato infatti Kant a mostrargli che la condizione di “piena moralità” dell’umanità doveva essere intesa nel suo uso regolativo e che quindi costituiva un obiettivo sempre perfettibile, dunque impossibile da raggiungere in modo compiuto: “per ritenerci moralizzati (moralisti) ci manca ancora molto” [I. Kant, “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 38].

Per risolvere la sua contraddizione, Fichte si attenne dunque a questa impostazione kantiana, per la quale la moralizzazione dell’umanità andava intesa in forma mai conclusa e sempre “in movimento” secondo la filosofia dell’ovvio, anzi dell’ovvio assolutizzato, per cui all’idealista assoluto Fiche ben conveniva dire nel 1800: “Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia non può entrare nulla di statico, immobile e morto. In essa tutto è azione, movimento e vita” (J. G. Fichte, op. cit.).

Gli conveniva perché, così, tutto allora andava a posto: basta assolutizzare la “filosofia della trasformazione” (qualsiasi altra filosofia come compito inesauribile) e mostrarne il “telos” come “carota”, ed il gioco è fatto, dato che in nome di quella filosofia si potrà disporre di qualsiasi “bastone” si voglia nella misura in cui lo si renda necessario in nome della “carota”, anche se questa è il contrario del “bastone”.

Questo è dunque il punto: il compito inesauribile. Basta dire che il fine della “carota” (“primo Fichte”) non potrà mai dirsi compiuto in modo assoluto, e subito apparirà come cosa buona e giusta che lo Stato non potrà mai essere superato (“secondo Fichte”), ancorché l’obiettivo (del “primo Fichte”) era di rendere lo Stato superfluo.

In tal modo, mentendo sapendo di mentire, si fa apparire che il superamento della “forma-Stato” resta un “fine ultimo”, un ideale assoluto in nome del quale sforzarsi per favorire il perfezionamento dell’umanità lungo il suo cammino di moralizzazione, cioè per favorire l’attuazione di uno “Stato etico” per definizione inattuabile (lo Stato essendo - anche come participio passato - qualcosa di statico e tutt’altro che dinamico, o in movimento o in trasformazione): “Avvicinarsi a questo fine ultimo, ed avvicinarsi in progressione infinita, ciò egli [l’uomo] può e deve farlo. Possiamo definire unione (Vereinigung) questo avvicinarsi a una completa unità ed unanimità di tutti gli individui. Dunque la vera destinazione dell’uomo nella società è un’unione che divenga dal punto di vista dell’interiorità sempre più profonda e dal punto di vista dell’estensione sempre più ampia. Questa unione è però possibile solo mediante un perfezionamento” [J. G. Fichte, “La missione del dotto”, a cura di N. Merker, Fabbri, Milano 2001, p. 34].

Con questo tipo di “scilipotismo” del “qui lo dico e qui lo nego”, Fichte riesce a catturare adepti antistatalisti a cui predica la non necessità di vivere nello Stato e contemporaneamente adepti statalisti ai quali predica il contrario sostenendo l’insuperabilità della “forma-Stato”, e motivandola sulla base dell’avanzamento infinito come scopo dell’agire umano nella storia, in coerenza con gli stessi princìpi della sua Wissenschaftslehre, anche se ricadendo nel dogmatismo reso in tal modo necessario.

Furbo no? Ma era solo un businessman, esattamente come gli antroposofi odierni mossi da pensiero morto.

L’idealismo assoluto di Fichte si capovolse insomma in dogmatismo assoluto in base e in nome dell’assolutizzazione eristica dei concetti. Ma col pensiero debole o morto si potrà sempre dire che “in verità Fichte risolve l’aporia conservando lo sforzo (e dunque la libertà) di moralizzazione e di “toglimento” dello Stato: libertà che se, invece, potesse effettivamente giungere a una determinazione concreta, e dunque al raggiungimento dell’obiettivo in questione, si capovolgerebbe in “inerzia”, in “inazione” e dunque in dogmatismo. Il mantenimento dello Stato pur nella prospettiva asintotica del suo superamento è dunque la CONDITIO SINE QUA NON [il maiuscolo è mio, e intende sottolineare l’intercalare continuo delle prediche di Archiati nei suoi continui riferimenti a questa espressione latina] per tenere vivi la prassi e l’ininterrotto sforzo dell’umanità” (Diego Fusaro, “L’aporia dello Stato in Fichte”).
Aberrante, no? E soprattutto diabolico, in quanto perseveranza nell’errore. Che il muro di Berlino sia caduto non ha evidentemente senso per chi si inoltra in questa “prospettiva asintotica”. Anzi, costoro l’hanno ben presto sostituito col nuovo muro di Maastricht che predicano come cosa buona e giusta...

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  • : Blog di creativefreedom
  • : Musicista, scrittore, studioso di ebraico e dell'opera omnia di Rudolf Steiner dal 1970 ca., in particolare de "La filosofia della Libertà" e "I punti essenziali della questione sociale" l'autore di questo blog si occupa prevalentemente della divulgazione dell'idea della triarticolazione sociale. http://digilander.libero.it/VNereo/
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