Seguire Gesù, oggi non ha più senso. Oggi bisognerebbe piuttosto seguire il Cristo, presente in ognuno come involucro del proprio io.
Anticamente si parlava di “Gesù, detto il Cristo”, ed il Cristo era il nome tecnico per indicare il figlio dell’uomo (altro nome tecnico), cioè l’io… Allora l’uomo non indicava se stesso con la parola “io”, bensì in terza persona (il mio cuore dice al tuo cuore) come fanno i bambini: “Mario vuole giocare”, e non: “io voglio giocare”. Si diceva: “l’anima mia esulta” e non “io esulto”, “l’anima mia magnifica il Signore…”, e non “io magnifico il Signore”. Insomma il nome di Dio era “Eié escèr eié”, che significava e significa “Io sono l’IO SONO”, ed è questa forza di autopresentazione di sé che si manifesta col Cristo, detto anche IO SONO.
Perciò seguire Gesù, come vorrebbe la chiesa, significa tradire l’immanenza del Cristo in ogni uomo. Tale tradimento fa comodo ad ogni istituzione in cui il principio del collettivo è considerato preminente rispetto al principio dell’individuo, o la società più importante del socio.
“L’amore della verità ha bisogno del TEMPO della riflessione” era solito dire Agostino. Diceva, sì, il vero ma negava poi realtà al concetto di TEMPO. A partire da questa contraddizione di Agostino, l’Occidente incomincia ad essere spinto nel processo dell’astrazione e quindi dello STATALISMO.
Questo processo continuerà poi a protrarsi fino ad incorporarsi completamente in tutto l’Occidente.
“Solo grandi spiriti si ribellano a questo processo di astrazione” era solito dire circa un secolo fa Rudolf Steiner, citando Goethe come uno dei massimi fra questi grandi spiriti, e Kant come quello che più di tutti cadde preda dell’astrazione statalista. Infatti, continua Steiner, se si prende la “Critica della ragion pura” di Kant e se ne leggono gli assiomi, si può benissimo invertire ognuno di essi nel suo contrario, e si ottiene la verità: “Bisogna veramente pensare così dei più importanti princìpi kantiani, riguardanti tempo e spazio. Si possono con tranquillità voltare quei princìpi nel loro contrario; si può dire no dove è detto sì, e sì dove è detto no, e si ottiene qualcosa di valido per il mondo spirituale. Da ciò si può dedurre quale grande interesse mondiale ci sia nel falsificare Goethe che sta agli antipodi di Kant” (Rudolf Steiner, “Contributi alla conoscenza del Mistero del Golgota”, conf. di Berlino del 19 aprile 1917).
Chi si basa sui contenuti della filosofia di Agostino o di Kant senza verificarne gli assunti è poi costretto a procedere dogmaticamente, ponendo contenuti di pensiero (validi in un determinato periodo storico, cioè in periodi temporali alieni da quello presente) come verità di fede, le quali se non sono credute generano “eresia”. Ma le verità di fede di queste teste coatte, che si fanno poi “frati” e fratricidi bruciando gli eretici, sono verità o falsità? Sono cose giuste o errori? Sono errori. Errori che per accidia ci si “dimentica” di correggere.
E così, a furia di “dimenticanze” si diventa keynesiani assoluti dicendo “meno Stato” (che è il contrario di quanto diceva Keynes). I politici di destra di sinistra e di centro ne sono un esempio classico. Perciò i non votanti sono sempre più numerosi dei votanti.
Ci vogliono regole autoritarie, dice Agostino: “Non accetterei la dottrina di Cristo se non fosse fondata sull’autorità della Chiesa”! Ma che razza di modo coatto di pensare è?
Si veda la vita della politica. Nella sua forma odierna, la politica - ideologica, partitocratica, o democratica che sia - non è altro che il medesimo totalitarismo o fascismo o imperialismo dei tempi antichi. Le cose cambiano per essere gattopardianamente le stesse: si può essere comunisti o libertari, ma se l’uomo non passa a essere individuo anziché mero gregario o mero esemplare della specie-animale-uomo, la sostanza rimane. Ed è sostanza d’imbecillità.
Lo stesso può dirsi dell’abominevole e menzognera chiesa cattolico-romana (già nel suo essere cattolica, che significa universale, e contemporaneamente romana, vi è una menzogna colossale che nessuno vede, o quanto meno un’impossibilità di universalità del pensare).
La chiesa, dai tempi di Agostino fino al secolo quindicesimo, attraverso i mistici si definì, sì, cristiana, ma la sua forma non fu altro che quella del vecchio impero romano: vita irrigidita nella forma. Tutto ciò che prima era repubblica e poi impero, lo Stato romano lo trasmise - mediante le proprie manifestazioni di piazza e irrigidito nelle sue forme - al cristianesimo successivo. Trasmise al cristianesimo perfino la capitale, Roma, già capitale dell’impero! E persino gli amministratori delle province si perpetuarono nei presbiteri e nei vescovi. Ciò che era vita precedente, diventa forma successiva per il suo gradino successivo di vita. E ciò continua fino ad oggi con lo IOR, la banca vaticana del papa, nuovo… imperatore e nuovo… faraone, perfino nei faraonici e carnevaleschi paramenti!
E tutto ciò vale purtroppo soprattutto per l’uomo odierno. Oggi vi è infatti un colossale tabù su ciò che scaturisce dall’”io sono”, il cui nome tecnico era per gli evangelisti “figlio dell’uomo” (vedi Urs von Balthasar, “Sponsa verbi”, Ed. Jacabook, p. 480).
C’è una paura folle dell’io umano. Si tratta di una psicosi proveniente da ogni parte religiosa e politica! E i pochi che come Urs von Balthasar, Hans Küng, Mario Bacchiega, ecc., osarono affermare quasi balbettando il significato di tale nome tecnico (dell’io; cfr. ibid.) sono immediatamente espulsi dalla chiesa! Eppure tutta la vita interiore di ogni essere umano è il risultato di questa fecondazione dell’umanità tramite l’“io sono”!
Domanda: come stavano le cose nelle precedenti forme della vita individuale umana? L’uomo antico si esprimeva nominando se stesso in terza persona, esattamente come fanno gli infanti: “L’anima mia magnifica il Signore”, “Il mio spirito esulta”; “Mario ha fame”, per dire “io esulto”, “io (Mario) ho fame”. Il figlio dell’uomo - vale a dire “colui che si presenta come io ai suoi simili” - non nacque e non nasce da carne e sangue, bensì da un elemento IMMATERIALE dell’umanità, la cui natura è tale che muove in sé la possibilità della scoperta dell’io. Ed oggi lo si vorrebbe ricacciare nella forma precedente la sua nascita… Però l’operazione non riesce… Perché? Perché il bambino, a un certo punto della sua infanzia dirà sempre “io” a se stesso!
“Non bisogna avere paura dell’io, o bestie!” scrivevo… La nascita verginale del “figlio dell’uomo” da parte della natura umana, il senso della nascita del Cristo in quanto involucro (sindéresi) dell’“io sono” nell’uomo, non è altro che questo. Vi è infatti un percepibile rapporto di equivalenza fra la storia dell’individuo e quella dell’umanità: tanto nell’infanzia dell’umanità quanto in quella del bambino, si passa dalla consapevolezza di sé in terza persona a quella in prima persona. Troviamo testimonianza di ciò nei testi più antichi: come cinquemila anni fa il faraone Azoze, V dinastia, circa 2900 a.C., diceva “La mia maestà ha visto” (G. Farina, “Grammatica della lingua egiziana antica”, Ed. Hoepli, pag. 183 e 184), anziché dire “io ho visto”, così duemila anni fa, la “madre” dice ancora “l’anima mia magnifica il Signore”, anziché dire “io magnifico il Signore” (Luca, 1,46).
Nella misura in cui si riesca a ripercorrere all’indietro le antiche forme di autocoscienza dell’umanità, ricercandole dal tempi dell’avvento del “figlio dell’uomo” fino ai primordi, oltrepassando i tempi dell’essenziale esigenza mosaica di un dio che dica di se stesso “io sono l’io sono” (Esodo 3,13-16), fino ai tempi prediluviani, si può percepire come l’umanità tenda ad indicare se stessa sempre in terza persona singolare, come gli infanti quando, prima di scoprire la parola “io”, indicano se stessi in terza persona singolare servendosi del loro nome. Ovviamente, qui non si tratta di una percezione materiale simile a quella che si ha di un tavolo, perché in questo settore - a parte i pochi documenti antichi rimasti - il percepibile materiale a disposizione è poco. Si tratta perciò di percezione sovrasensibile, vale a dire di intuizione. E questa è la stessa intuizione che permise a Steiner la seguente affermazione: “La terra degli Atlanti era quella che la mitologia germanica designa con i nomi di “Niflheim”, “Nebelheim”, “Wolkenhein”, terra delle nebbie. […] Il continente atlantico fu sommerso a seguito di una serie di diluvi nel corso dei quali l’atmosfera terrestre si rischiarò. Solo in seguito si videro il cielo azzurro, i temporali, la pioggia e l’arcobaleno. Ecco perché, dice la Bibbia, dopo che l’arca di Noè ebbe toccato terra, l’arcobaleno fu il nuovo segno del patto fra Dio e gli uomini. […] Solo allora l’uomo iniziò a chiamarsi “io”. Gli Atlanti parlavano di se stessi in terza persona” (Rudolf Steiner, “Kosmogonie”, Opera Omnia n. 94, R. Steiner Verlag, Parigi, 26 maggio 1906; cfr. anche R. Steiner, “I manichei”, Ed. Antroposofica, Milano 1995). E la vita dell’io in terza persona si è perfino fatta sentire nel “plurale maiestatis” degli ultimi papi, perché sempre la vita di un periodo precedente diviene la forma di quello successivo. È una legge evolutiva questa.
La nuova forma sociale, la nuova moneta, la sovranità dell’individuo, la triarticolazione dell’ordine sociale, in definitiva la neosocietà sarà una comunità nella quale troverà posto anzitutto la reale scintilla cristiana, cioè l’io consapevole di essere assolutamente immateriale.
Oggi dovremmo dire: Padre nostro liberaci dal male… della stagnazione che è in noi… nel nostro mero emisfero sinistro dell’ideologia che genera gregari, cioè schiavi di idee credute Dio! Vera stagnazione è infatti quella del cervello malato di coloro che pretendono l’attuazione della neosocietà e della neofiscalità, retrocedendo, attraverso le forme di ieri, attraverso la democrazia che in verità è usurocrazia: forme antiche che generano altre forme antiche, spingendo le persone a formare da un lato fazioni in lotta fra loro, e contemporaneamente a risparmiare, portando i loro soldi in banca… È la follia! Queste persone, altro non sono altro che un’ignara espressione (una delle tante) della “belva feroce” di cui parlava Nietzsche (F. Nietzsche, “Genealogia della morale”, Adelphi, Milano 1995, pag.30-32) preparando il futuro.
Invece agli antipodi del futuro, Agostino, uno degli spiriti più eminenti per la chiesa cattolica (che nel suo “De Civitate Dei” diede appunto forma alla chiesa, forma che è ancora quella di oggi) fu necessariamente il più attivo avversario della forma che preparava il futuro. Circa 17 secoli fa, Faustus ed Agostino, erano uno di fronte all’altro come il fenomeno goethiano di due polarità di colori: Agostino che, partendo dall’antica autorità dell’impero romano, costruiva sulla chiesa nella sua forma attuale, e Faustus che, movendo dall’uomo, intendeva preparare il senso per la forma dell’avvenire. Questo contrasto, che si sviluppò nel terzo e nel quarto secolo dopo Cristo rimase, e si manifestò poi nella lotta della chiesa cattolico-romana contro i Templari, i Rosacroce, gli Albigesi, i Catari e gli altri. Ecco perché Jacques de Molay, l’ultimo dei templari, bruciando sul rogo, disse agli astanti: “Le eresie e i peccati che ci vengono attribuiti non sono veri […]. Sono degno della morte e mi offro di sopportarla, perché prima ho confessato per paura delle torture, e per le moine del papa e del re di Francia”. Tutti vennero distrutti sul piano fisico, ma la loro vita interiore continua ad agire. E ciò in fondo non è altro che lo swing della vita che agisce, con la sua diastole e sistole. La lotta di Agostino contro Faustus non fu altro che un primo aspetto di tale contrasto.
Se tramite computerizzazione della mia attività cardiaca costringo meccanicamente il mio cuore ad andare a tempo secondo una media parametrica scientificamente esatta fra un battito e l’altro, non opero per la mia vita ma per la mia morte. E ciò è come portare i soldi in banca, credendo di risparmiare… È come predicare bene e razzolare male. Predico bene, semino la buona novella, le nuove teorie monetarie, economiche, sociali, ecc., ma se continuo a seminare anche i miei soldi in banca, succede come nella semina di Pinocchio. Qui Collodi è bravo nello spiegare le attuali truffe: Pinocchio semina le sue quattro monete nel campo dei fiori su indicazione del gatto (lo Stato) e della volpe (la banca, lo IOR, sua santità, ecc.), e se ne torna gongolando al luogo della buca chiedendosi quante migliaia di monete troverà sull’albero cresciuto dove aveva seminato i soldi “investiti” con grande fiducia nei lestofanti usurai di allora: “‘Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro. Pigliatelo e mettetelo in prigione’. Il burattino rimase di princisbecco e voleva protestare, ma i gendarmi gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia”(Carlo Collodi, “Pinocchio”, Ed. Salani, 1995, in Carlo Alberto Brioschi, “Breve storia della corruzione dall’età antica ai giorni nostri”, Ed. Tea, Milano, 2004). La colpa di Pinocchio è il torto imperdonabile di farsi derubare, esattamente come i “burattini” d’oggi, che si fidano delle banche di Stato. I burattini d’oggi sono coloro che costituiscono il “popolo bue”, gli uomini senza meraviglia, quelli che Pound chiama “uomini di marmo”: “gli uomini di marmo trapasseranno nel nulla” (“Canti pisani”, op. cit.). I loro soldi continuano a diminuire; ognuno dice la sua, tutti predicano riforme del sistema monetario, però tutto resta come prima: il “seminato” non da’ frutti, o da’ frutti appassiti.
In tutta la storia della politica, in quella delle confessioni religiose, e di tutte quelle consorterie del malaffare, che non vogliamo verificare alla radice i propri presupposti, e correggerli, inserendo il nuovo, vi è sempre un “bene fuori tempo” che aspetta di andare a tempo. Purtroppo chi paga questi errori è sempre il popolo… “Tutto cambia affinché niente cambi” ma anche affinché il “bene fuori tempo” possa godersi in tempo…
Quanto segue è una mia lettera del 2002 che spedii ad un amico prete, infervorato di Agostino. (Nel 1980 volevo fare il prete in quanto speravo ancora in una chiesa sana. Poi mi accorsi che la mia speranza era infondata, esattamente come la speranza odierna di chi crede di risolvere il problema del signoraggio nella misura in cui lo Stato stampi la propria moneta, e per molti anni poi fui in contatto con amici, preti e teologi, coi quali avevo fatto amicizia).
***
Castell’Arquato, 25/10/02
Caro ***,
Agostino, speculativo e platonico, poteva dire che Dio è in tutte le cose, che è l’essere più intimo dell’anima, ma il suo concetto di trascendenza non poteva avere una consistenza logico-razionale. Se ai suoi tempi la tradizione mistica insiste sull’uomo-immagine-di-Dio, il cui essere è nulla in sé, dato che l’unico essere è Dio, ciò non toglie che l’esemplare che si riflette nell’immagine la costituisca. Tommaso infatti, servendosi di Aristotele, stabilisce anzitutto la logica della trascendenza e della distinzione dell’essere di Dio da quello della creatura (analogia entis, analogia fidei, ecc.) sostenendo che non c’è identità di essere tra Dio e la creatura, ma neppure alterità totale, poiché è Dio che da’ l’essere (nesciamà) alla creatura. Credo che se non si vuole ragionare semplicisticamente come Bart, Rahaner e compagnia bella, occorre superare questo aspetto dell’agostinismo.
Mi sento di dirti queste cose, perché riflettendo su ciò che sta accadendo in Cecenia e nel “teatro russo” (terrorismo) credo che Roma abbia un’unica via oggi per continuare la sua pastorale nel mondo: Soloviev (1853 -1900) (anche se purtroppo oramai è probabilmente troppo tardi, visti gli ultimi avvenimenti).
L’idea cristiana di Stato, che questo teologo russo offriva ed offre come alto ideale, come sogno dell’avvenire, era ed è un concetto cristiano di Stato e di popolo che afferra l’uomo intero per offrirlo all’io superiore (io superiore, o sé spirituale, o il “non io ma il Cristo in me” di Paolo di Tarso) affinché le potenze dell’avvenire lo pervadano di forza cristica. Ma non vi è contrasto maggiore tra l’idea di questa comunità cristiana, in cui il concetto del Cristo è tutto dell’avvenire, e l’idea dello Stato divino di Sant’Agostino (sviluppato in “De civitate Dei”). Agostino accetta, sì, il concetto di Cristo e di Stato, ma lo Stato in questione è quello romano, che accoglie il Cristo nell’idea di Stato trasmessa dallo Stato romano.
Per me è importante invece soprattutto un sapere adatto al cristianesimo che si evolva verso l’avvenire.
Nello Stato di Soloviev, il sangue che pervade tutta la vita sociale è il Cristo stesso. E ciò che più conta, è proprio lì che lo Stato è pensato dotato di tutta la concretezza dell’individualità, e non della burocrazia, pur agendo come essere spirituale, adempiendo cioè la sua missione con tutte le caratteristiche della personalità capace di evolversi in individualità (individualismo etico). Agli inizi del 1900, questa filosofia era ancora in germe, ma l’operazione romana (vaticana) contro il modernismo (cioè contro ogni anelito spirituale altrettanto capace di essere pervaso dal concetto del Cristo come lo fu per esempio la scienza dello spirito di Steiner) non fece che comprimere ed oscurare le coscienze nel loro anelito cristico di ricerca. Ciò ha provocato, a mio parere, i sintomi di decadenza attuali che si esprimono, per es., nell’attuale slogan terroristico: “O vittoria, o Paradiso”, segno di un impulso cristico senza Cristo.
Tutto quello che troviamo in Oriente, dal sentimento popolare fino alla filosofia, non è che il germe di un futuro sviluppo. In altre parole, secondo me avrebbe dovuto essere lo spirito dell’antico popolo greco, e che divenne guida del cristianesimo, a dirigere l’Europa, non lo spirito giuridico romano [qui, fra l’altro sta ancora il problema della Grecia di oggi, ridotta ad essere ancora colonia romana o tedesca o americana].
L’umanità del futuro non può più accettare il civis romanus, nella misura in cui il diritto romano è fondato sulla violenza, vale a dire sul fratricidio (Romolo e Remo) e sulla rapina (ratto delle Sabine).
Il carattere del popolo russo, orientale, non solo fu educato, ma fu nutrito e allevato nella spina dorsale della grecità, che più tardi, con l’imperialismo romano, con il civis e con il cattolicesimo romano (contraddizione in termini) degenerò, assumendo un rango differente proiettato verso l’esterno.
A me risulta che il vero terrorismo ha lì, in tale degenerazione, le sue radici. La tavola rotonda dei cavalieri del Graal si è trasformata in pratica in potere piramidale. È in fondo la faraonica piramide che Roma, a differenza di Mosé, non volle mai lasciare. E questo è il motivo del mio dissenso con la chiesa [Fine della lettera].
Chi oggi crede in Dio creatore del mondo dal nulla, deve fare i conti con la grammatica ebraica, dato che Eloìm di “Berescit barà Eloìm” (inizio della Bibbia generalmente tradotto con “All’inizio Dio creò”) non è grammaticalmente credibile: “barà” è la terza persona SINGOLARE del passato remoto di “creare”, mentre “Eloìm” significa non “Dio” ma “Dei”: la desinenza “im” di “El” (o di “Al”, che da’ l’etimologia dell’italiano “Alto”, “Altissimo”, o di Allah, ecc.) è infatti quella di un plurale. La traduzione letterale dovrebbe quindi essere “All’inizio gli Dei creò…”.
Quindi ci si può rendere conto che nella Bibbia abbiamo già nelle prime tre parole un errore grammaticale tramandato per millenni.
Inoltre il significato di “barà” non sembra essere “creare”. Dico “non sembra” perché il significato originario è ancora discusso tra gli accademici. Sembra invece che il vero significato sia ben altro.
Nei trattati dell’Ancient Hebrew Research Center, dovì’è disponibile un articolo di Jeff Barner proprio sul termine “barà” si trovano queste parole: «In Genesis 1:1 it does not say that God “created” the heavens and the earth, instead he “fattened” them or “filled” them. Notice that the remaining chapter is about this “filling” of the heavens with sun, moon, birds and and the “filling” of the earth with animals, plants and man», che traduco così: «In Genesi 1,1 non è detto che Dio “creò” i cieli e la terra, invece Lui li “ingrassò” o li “riempì”. Si noti che la rimanente parte di capitolo è relativa a questo “riempimento” dei cieli con il Sole, la Luna, gli uccelli, e il “riempimento” della terra con animali, piante e uomo».
In sostanza il ‘“barà” di Genesi 1,1 non dovrebbe significare “creare” ma “riempire”. In effetti, come fa osservare l’articolo, i versi seguenti raccontano di come Dio RIEMPIE il cielo e la terra (e le acque) di forme di vita.
Come si arriva a questo “riempire”? Secondo l’AHRC (Arts and Humanities Research Council) il termine “barà” significa letteralmente “irrobustire”, “ingrassare”, “rendere più sostanzioso”.
Ne deduco dunque che anche in senso linguistico la creazione dal nulla è una bufala. Perché il termine “barà” sembra indicare qualcosa di diverso dal “creare”.
Questi dati dell’Ancient Hebrew Research Center e dell’AHRC mi sono stati gentilmente inviati da un lettore, anzi da uno studioso devo dire, che si firma Jo, al quale ho così risposto: «Bravo. Grazie dell’interessante contributo, che rende giustizia anche alla visione antroposofica ed aristotelica della manifestazione del mondo. Infatti di manifestazione si tratta, dato che le stessa “prakriti” (“materia” in sanscrito) e “purusha” (“spirito” in sanscrito) hanno ENTRAMBE carattere di eternità. Il cosmo - proprio il cosmo fisico - è ORDINE naturale che esiste da sempre e che non è stato creato da alcun essere collocato metafisicamente fuori da quell’ordine. Da ciò non può che emergere che la cosiddetta creazione si è condensata (o “ingrassata” o “riempita”) da sé, e da invisibile si è resa visibile (onde il senso dell’apparire fenomenico o dell’“epifania” cosmica)» (cfr. la nota di Jo in http://bastamonopolio.over-blog.com/2014/10/biglino-e-la-traduzione-letterale-di-bara-genesi-1-1.html).
Dunque credere alla creazione dal nulla è come credere al mago Zurlì o all’UE, o alle banche centrali, che stampano dal nulla la moneta…
La creazione del mondo è ancora in atto, anche se tutto è compiuto con l’io umano, il quale però può sempre evolversi e mai in modo esaustivo.
Insomma per me non esiste un prima e un dopo la creazione. Quello che c’è, c’è da sempre, e sempre ci sarà. Evolvendosi. Se devo chiamare questo evolversi con la parola “Dio”, allora posso anche dire di credere in Dio ma non nel senso comune che si da’ ad essa.
Brano di Nereo del 2012 dedicato al mondo femminile, che lavora tutta la vita senza compenso... Oggi la donna è retribuita solo se lavora fuori casa. Perché? Dove sta il sentimento di giustizia almeno fra maschi e femmine?
Quanto segue è uno scritto di Henri-Benjamin Constant de Rebecque (1767-1830), filosofo e politico di orientamento liberale, noto per la sua controversia con Kant. Il testo - tratto da “Des Réactions politiques”, cap. VIII, “Des principes” - redatto nel gennaio-febbraio del 1796 e pubblicato poco dopo, ha avuto anche una traduzione e un’edizione tedesca nella rivista “Frankreich im Jahr 1797”, pubblicata da K. F. Cramer. Kant ne prenderà conoscenza grazie a tale rivista (cfr. Kurt Kloocke, “Benjamin Constant, une biographie intellectuelle, Droz, Genève 1984, p. 80).
In Constant è possibile intravedere un precursore del diritto di “epicheia” (concetto cristiano molto occultato dalle confessioni religiose in quanto consistente nel disobbedire a leggi ritenute ingiuste), proprio là, dove tratta del dovere della verità.
Negli uomini di sinistra, di destra, di centro ed, in modo addirittura gaudente, negli uomini confessionali, quindi negli statalisti, nel legulei, e nei giustizialisti, ecc., vi è una sorta di malattia mentale, che fa apparire queste persone “sinistre”, ma sarebbe meglio dire sinistrati pensatori, nella misura in cui si ostinano a ragionare pigramente solo in superficie, senza mai verificare i pregiudizi, consistenti in “imperativi categorici”, che costituiscono i fondamenti della maggior parte delle loro argomentazioni.
Questa loro mancanza di pensiero comporta il declino della politica, la quale diventa perciò “o-scena” in quanto fuori dalla scena
dell’attualità e quindi anacronistica.
Alla seguente pagina di Benjamin Constant, testimone del fatto che tale declino ha le sue radici nelle primigenie controversie sulla questione del dovere della verità, a loro volta espressioni delle radici essenziali della corruzione ma anche del suo futuro superamento mediante il diritto di epicheia, filosoficamente consistente nella categoria scientifico-spirituale dell’individualismo etico che promuoverà poi Rudolf Steiner nella sua “Filosofia della libertà”, ho fatto seguire un capitolo del libro di Carlo Lottieri (vivente) “Credere nello Stato? Teologia politica e dissimulazione da Filippo il bello a Wikileaks”, (Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 2011) che reputo necessari per comprendere come sia difficile oggi incarnare la triade illuminista “liberté, égalité, fraternité” senza una reale filosofia della libertà, base della triarticolazione sociale, di cui Steiner parlava. Il titolo del capitolo: “L'illuminismo: una verità disincarnata” (Lottieri, op. cit. p. 121).
Benjamin Constant
Non tutti hanno diritto alla verità
- a cura di Nereo Villa -
Si è tanto e così sciaguratamente abusato della parola PRINCÌPI [il maiuscolo è mio - ndc] che chi reclama per essi rispetto e obbedienza è considerato di solito un astratto sognatore, un chimerico ragionatore. Tutte le fazioni hanno in odio i princìpi: gli uni li considerano responsabili dei mali passati, gli altri vi scorgono dei moltiplicatori delle difficoltà presenti. Coloro che non riescono a ricostruire ciò che non è più, se la prendono con i princìpi del sovvertimento; coloro che non sanno far funzionare l’esistente, li accusano della propria impotenza; e la stessa massa che, nel suo essere un che di composito, non avendo alcun interesse nelle eccezioni individuali, ne ha uno assai urgente a che i princìpi generali siano osservati, vedendoli oggetto di volta in volta delle dichiarazioni di tutti i partiti, si mostra prevenuta nei loro confronti e si accende di passione contro una cosa della quale da tutti sente dir male, mentre questa cosa è la sola capace di garantirla contro tutti costoro.
La riabilitazione dei princìpi costituirà un’impresa al tempo stesso utile e soddisfacente: dedicandocisi, si potrà uscire dalla sfera di circostanze nella quale ci si trova incessantemente a mal partito in una infinità di modi. Si sfuggirà a ogni riferimento personale agli individui: anziché dover rilevare imprudenze o debolezze, si dovrà aver a che fare con il solo pensare. Al vantaggio di approfondire meglio le opinioni, si unirà quello, non meno prezioso, di dimenticare gli uomini (denunciare i princìpi in generale non è rischiare alla fine di affondare sistematicamente nell’arbitrarietà? E d’altra parte, esagerare il valore dei princìpi non porta a una conseguenza identica?).
Questo lavoro, tuttavia, esigerebbe sviluppi non consentiti dai limiti di un’opera che mi affretto a pubblicare nella speranza, forse mal riposta, di una sua utilità. In seguito, forse, se qualche altro più abile scrittore non riuscirà a superarmi in questo percorso, cercherò di esporre quelli che a mio giudizio sono i princìpi elementari della libertà. Oggi come oggi non posso che indicare le idee fondamentali di un sistema che consta di una lunga catena di ragionamenti, e sono obbligato ad affidarmi al lettore affinché supplisca ai ragionamenti intermedi, qualora sia sufficientemente interessato a farlo.
Un principio è il risultato generale di un certo numero di fatti particolari. Ogni volta che l’insieme di questi fatti conosce qualche cambiamento, il principio che ne risulta si modifica: ma allora questo mutamento diventa esso stesso un principio.
Tutto nell’universo ha dunque i suoi princìpi, vale a dire che tutte le combinazioni, vuoi di esistenze vuoi di avvenimenti, conducono a un risultato: e tale risultato è sempre uguale, ogni volta che le combinazioni sono le stesse. Questo risultato è ciò che chiamiamo principio.
Questo risultato non è generale se non in rapporto alle combinazioni dalle quali scaturisce. Esso è dunque generale solo in modo relativo e non assoluto. Tale distinzione è di grande importanza, ed è per la sua mancata formulazione che si sono concepite tante idee erronee su ciò che costituisce un principio.
Si danno dei princìpi universali, perché vi sono dei dati primi che ricorrono egualmente in tutte le combinazioni. Ma ciò non significa che a questi princìpi fondamentali non occorra aggiungere altri princìpi, risultanti da ciascuna combinazione particolare.
Quando si dice che i princìpi generali sono inapplicabili alle circostanze, si dice semplicemente che non si è scoperto il principio intermedio che la combinazione particolare di cui ci si occupa esige. Ciò significa aver perduto uno degli anelli della catena; però questo non implica affatto che la catena per ciò stesso non esista (ciò che qui è in gioco, su uno sfondo politico, è l’opposizione fra la teoria e la pratica giudicata da taluni insormontabile. I fautori di una limitazione dei princìpi vogliono far posto all’arbitrarietà, all’opportunismo col pretesto che “assiomi, metafisicamente veri, politicamente possono essere falsi”; “Réactions politiques”, Ed. a cura di Philippe Raynaud, Flammarion, Paris 1988, IX, p. 142; la prova dell’esperienza essendo qui considerata fatale alla teoria. Chi sono i detrattori dei princìpi se non quelli stessi che rimettono in discussione la Rivoluzione francese a motivo del Terrore? Sono quelli che reclamano il ritorno della monarchia, il ritorno di una politica concreta e notoria, della cui validità la storia ha fornito le prove, piuttosto che una politica razionale impossibile nella pratica. Contro costoro, Constant intende riabilitare la FILOSOFIA DEL GIUSTO MEZZO esponendo una dottrina dei princìpi intermedi e riaffermando per mezzo di questa il legame indefettibile fra la teoria e la pratica. I princìpi non sono delle astrazioni ed è precisamente l’esperienza che potrebbe darne la prova, a condizione di non ignorare i princìpi intermedi).
I princìpi secondari sono altrettanto immutabili dei princìpi primi. Ciascuna interruzione della grande catena non può esser colmata che con un solo anello.
Se attualmente noi disperiamo spesso dei princìpi, è per il fatto che non li conosciamo tutti. Quando si dice che sussiste la tale circostanza che costringe a deviare dai princìpi, non ci si capisce. Ogni circostanza invoca solamente il principio che le è proprio, poiché l’essenza di un principio non sta nell’essere generale, o applicabile a molti casi, ma nell’essere fisso; e questa qualità costituisce così bene la sua essenza, che tutta la sua utilità risiede precisamente in essa.
I princìpi non sono dunque vane teorie, destinate unicamente ad essere dibattute negli oscuri ridotti delle scuole. Sono verità fra loro coerenti, capaci di spingersi gradualmente sino alle applicazioni più circostanziate, e di coinvolgere i minimi particolari della vita sociale, se solo sapessimo seguire il loro concatenarsi.
Allorché, nel bel mezzo di una associazione di uomini, viene introdotto d’improvviso un principio primo, separato da tutti i princìpi intermedi che lo fanno discendere sino a noi e lo adattano alla nostra situazione, non c’è dubbio che si produca un grande disordine: poiché il principio strappato da tutto quanto gli sta attorno, spogliato di tutti i suoi sostegni, circondato da cose che gli sono contrarie, non è che distruzione e sconvolgimento (nel capitolo VII delle “Réactions politiques”, op cit., p. 129, Constant già scriveva: “Tutto quello che ho voluto provare è che l’esagerazione dei princìpi, essendo il mezzo più infallibile per renderli inapplicabili, sarà sempre una delle armi più pericolose che possano impiegare i fautori dei pregiudizi”); ma non è colpa del principio primo adottato, è colpa dei princìpi intermedi che sono sconosciuti; a precipitare tutto nel caos, non è l’adozione del primo, ma l’ignoranza di questi ultimi.
Applichiamo queste idee ai fatti e alle istituzioni della politica, e ci avvedremo del perché sino ad oggi i princìpi siano stati denigrati da uomini avveduti, e considerati da uomini semplici alla stregua di cose astratte e inutili. Ci avvedremo parimenti del perché I PREGIUDIZI, POSTI IN CONTRAPPOSIZIONE AI PRINCÌPI, HANNO FINITO COL GODERE DEL FAVORE CHE SI RIFIUTAVA AI PRIMI.
Naturalmente, essendo i princìpi nient’altro che il risultato dei fatti particolari, ne consegue che, nell’associazione politica, essendo questa il risultato degli interessi di ciascuno, o, per dirla in poche parole, costituendo l’interesse comune di tutti, i detti princìpi avrebbero dovuto esser cari a tutti e a ciascuno; ma, in forza delle istituzioni che vigevano e che erano il risultato dell’interesse di alcuni di contro al comune interesse di tutti, era inevitabile dovesse accadere quanto si è appena detto. Non fu possibile promuovere dei princìpi se non isolatamente, lasciando al caso il compito di guidarli e rimettendo ad esso il bene o il male che dovevano produrre; ne doveva seguire quel che in effetti ne è seguito, che cioè, essendo il primo effetto dei princìpi distruttivo, un’idea di distruzione è rimasta ad essi legata.
I PREGIUDIZI, INVECE, HANNO GODUTO DEL GRANDE VANTAGGIO CHE, ESSENDO LA BASE DELLE ISTITUZIONI, SI SONO ADEGUATI ALLA VITA COMUNE GRAZIE ALLA CONSUETUDINE CON CUI VI SI FA RICORSO: HANNO AVVILUPPATO STRETTAMENTE TUTTI GLI ASPETTI DELLA NOSTRA ESISTENZA; SONO DIVENUTI QUALCOSA DI INTIMO; HANNO PERVASO TUTTI I NOSTRI RAPPORTI; E LA NATURA UMANA, CHE SEMPRE SI ADATTA A CIÒ CHE ESISTE, HA FATTO DEI PREGIUDIZI UNA SPECIE DI RIPARO, UNA SORTA DI EDIFICIO SOCIALE, PIÙ O MENO IMPERFETTO, MA QUANTO MENO CAPACE DI OFFRIRE UN ASILO. OGNI UOMO, RISALENDO IN QUESTO MODO DAI SUOI INTERESSI INDIVIDUALI AI PREGIUDIZI GENERALI, SI È LEGATO A QUESTI ULTIMI SCORGENDOVI DEGLI STRUMENTI ATTI A CONSERVARE I PRIMI (Che cosa sono in realtà QUESTI PREGIUDIZI di cui parla Constant? Ciò che costituisce la forza dei pregiudizi è il loro carattere “intimo” secondo il termine usato dall’autore, è la familiarità che essi hanno con noi. Essi SONO SINONIMI DI TRADIZIONE, pongono la NECESSITÀ CHE TUTTO DEBBA ACCADERE SEMPRE COME È ACCADUTO; permettono di accostare il reale con l’ausilio dell’esperienza passata - in tutto quello che essa contiene di arbitrario -, esperienza alla quale ogni cosa, in definitiva, deve conformarsi. ALLORA nulla più è sconosciuto, incerto, ed È LA SICUREZZA E LA CERTEZZA DELL’APPLICABILITÀ DEI PREGIUDIZI A COSTITUIRNE LA FORZA).
I princìpi, seguendo un cammino precisamente opposto, hanno conosciuto una sorte del tutto diversa. I princìpi generali si sono delineati per primi, non in ragione diretta dei nostri interessi, e in opposizione ai pregiudizi che proteggevano questi interessi (effettivamente, i princìpi non mirano all’interesse particolare ma a un interesse universale). Hanno assunto in tal modo il duplice carattere di estranei e di nemici. Si è visto in essi qualcosa di generale e di distruttivo, mentre i pregiudizi sono apparsi come cose individuali e preservatrici.
QUANDO DISPORREMO DI ISTITUZIONI FONDATE SUI PRINCÌPI, L’IDEA DI DISTRUZIONE FINIRÀ CON L’APPLICARSI AI PREGIUDIZI, PERCHÉ ALLORA SARANNO QUESTI ULTIMI AD ESSERE LESIVI.
La dottrina dell’eredità, per esempio, è un pregiudizio astratto, tanto astratto quanto lo può essere la dottrina dell’uguaglianza. Ma l’eredità, di cui era stato necessario organizzare l’esistenza per il solo fatto che esisteva, dipendeva da un concatenarsi di istituzioni, di abitudini, di interessi che si spingeva sino all’individualità più intima di ciascun uomo. L’uguaglianza, all’opposto, per il solo fatto di non essere riconosciuta, non dipendeva da nulla, dava addosso a ogni cosa, e non toccava gli individui se non per sconvolgere il loro modo d’essere. Nulla di più ovvio, dopo l’esperienza dello sconvolgimento, che l’ODIO PER IL PRINCIPIO e l’AMORE PER IL PREGIUDIZIO.
Ma rovesciate questa situazione di cose: immaginate la dottrina dell’uguaglianza riconosciuta, organizzata, e formante il primo anello della catena sociale, mescolata di conseguenza a tutti gli interessi, a tutti i calcoli, a tutti gli accomodamenti della vita privata o pubblica. Supponete ora la dottrina dell’eredità scagliata isolatamente, e come teoria generale, contro questo sistema: a distruggere sarà allora il pregiudizio; a preservare, il principio.
Mi si permetta ancora un esempio. È un principio universale, vero allo stesso modo in tutti i tempi e in tutte le circostanze, che NESSUN UOMO PUÒ ESSER OBBLIGATO SE NON DALLE LEGGI ALLA CUI FORMAZIONE ABBIA CONTRIBUITO. In una società molto ristretta, questo principio può avere applicazione immediata, e non necessita, per entrare nell’uso, di un principio intermedio. Ma in una situazione diversa, in una società molto numerosa, occorre aggiungere un nuovo principio, un principio intermedio a quello testé citato. Questo principio intermedio è che gli individui possono contribuire alla formazione delle leggi, sia in prima persona, sia per mezzo di loro rappresentanti. Chi volesse applicare il primo principio a una società numerosa, senza far valere il principio intermedio, la sconvolgerebbe inevitabilmente: ma questo sconvolgimento, che dimostrerebbe l’ignoranza o l’imperizia del legislatore, nulla proverebbe contro il principio. A far vacillare lo Stato non sarebbe l’aver riconosciuto che ciascuno dei suoi membri deve concorrere alla formazione delle leggi, ma l’aver ignorato che, di là da un dato numero, per concorrervi doveva farsi rappresentare (François Boituzat scrive giustamente a questo riguardo: “Nella sua difesa dei princìpi, Constant si rifà all’articolo 6 della “Dichiarazione lei diritti dell’uomo e del cittadino”, il quale, recitando che “la legge è l’espressione della volontà generale”, sottolinea che “tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere personalmente o attraverso i loro rappresentanti alla sua formazione”. Disgiungendo il principio rousseauiano della sovranità inalienabile dalla dottrina dei diritti dell’uomo, egli afferma, per salvare quest’ultima, che un tale principio non potrebbe reggere se posto “isolatamente e in modo assoluto”, poiché chiunque volesse applicarlo a una società molto popolosa “senza impiegare l’intermediario la sconvolgerebbe infallibilmente”; cf. “Un droit de mentir? Constant ou Kant”, PUF, Paris 1993, pp. 16-17).
La morale è una scienza molto più approfondita della politica, perché, essendo il bisogno di morale qualcosa che va oltre la quotidianità, lo spirito degli uomini ha dovuto consacrarvisi maggiormente, e la sua direzione non è stata falsata dagli interessi personali dei detentori o degli usurpatori del potere. Essendo inoltre meglio conosciuti i princìpi intermedi della morale [ciò che Constant chiama “princìpi intermedi” non è altro che la necessaria aggiunta di pensare occorrente al pensiero astratto affinché non cada nell’anacronismo ma sia costantemente vivente nel presente - ndc], i suoi princìpi astratti non sono screditati: la catena è costruita in modo migliore, e nessun principio primo ne discende con l’ostilità e il carattere devastante che l’isolamento conferisce alle idee così come agli uomini.
E tuttavia è fuor di dubbio che i princìpi astratti della morale, separati dai loro princìpi intermedi, produrrebbero nelle relazioni sociali degli uomini un disordine pari a quello che i princìpi astratti della politica, separati dai loro princìpi intermedi, necessariamente producono nelle loro relazioni civili.
Per esempio, il principio morale che è un dovere dire la verità, inteso incondizionatamente e senza distinzione, renderebbe impossibile qualsiasi società (si può egualmente pensare che rinunciare al dovere della veridicità porterebbe alla distruzione stessa della società, perché il rigetto di questo dovere scalzerebbe ogni fiducia tra gli uomini e ogni legame sociale. La società è figlia di un antico contratto tra gli individui: ora, se la parola non ha più valore, non lo ha neppure questo contratto, né gli obblighi e gli impegni che esso impone. Tuttavia, se il dovere di veridicità è un principio giusto, può rivelarsi distruttivo non appena sia eretto a principio incondizionato. Constant si accinge pertanto a proporre un dovere di veridicità sub condicione). NE ABBIAMO LA PROVA NELLE DIRETTE CONSEGUENZE CHE UN FILOSOFO TEDESCO (il fatto che Constant non nomini Kant direttamente è segno di disprezzo o di rispetto per un filosofo al quale non si desidera associare quel che a proprio giudizio è un errore di analisi?) HA TRATTO DA QUESTO PRINCIPIO, ARRIVANDO AD AFFERMARE CHE MENTIRE A DEGLI ASSASSINI CHE CI DOMANDASSERO SE UN NOSTRO AMICO CHE STANNO INSEGUENDO È RIFUGIATO IN CASA NOSTRA, SAREBBE UN CRIMINE (nel 1795, Kant ha pubblicato il suo “Per la pace perpetua”. Vi si può leggere: “Per quanto la massima ‘L’onestà è la miglior politica’ implichi una teoria, che la pratica purtroppo assai spesso smentisce, tuttavia la massima parimenti teoretica ‘L’onestà è migliore di ogni politica’ è al di sopra di ogni obiezione, è anzi la condizione indispensabile della politica” (Appendice I, “Sulla discordanza tra morale e politica in ordine alla pace perpetua”). Constant non ignora né la “Fondazione della metafisica dei costumi” né questo testo allorché scrive “Delle reazioni politiche”. Coniuga quindi gli scritti kantiani e la propria esperienza per produrre questo caso di casuistica. L’esempio qui proposto troverà un’eco in un testo posteriore di Kant (cf. “Essere sinceri è anche un dovere verso se stessi”; Cfr. Immanuel Kant Benjamin Constant, “È lecito mentire”, Milano, 2009 p. 47), che dunque Constant non poteva conoscere quando redigeva il testo delle “Reazioni politiche”. Noi sappiamo, segnatamente grazie alle prospettive del “Cours de politique constitutionne” di Constant, quale fosse allora la situazione in Francia e come questa situazione abbia potuto nutrire la sua riflessione. LA POLIZIA INCORAGGIAVA LA DELAZIONE (DI NOTTE SI SFONDAVANO LE PORTE DELLE ABITAZIONI), LA PENA DI MORTE ERA RICHIESTA CONTRO CHIUNQUE DESSE ASILO A RICERCATI; cfr. “Fragments d’un ouvrage abandonné…”, BNF, Naf. 14363, foglietto 105a; “UNA DONNA CONOSCIUTA PER LA SUA GENEROSITÀ AVEVA DATO ASILO A UN FUGGIASCO; LO SVENTURATO LA DENUNZIÒ; COSTUI EBBE LA GRAZIA: LEI FU BRUCIATA VIVA”; “Des suites de la contre-révolution en Angleterre…”, 1799, p. 74; scriveva Constant a proposito dell’Inghilterra del XVII secolo, ma puntando il dito contro la Repubblica francese... “MI SONO DOMANDATO A VOLTE CHE COSA FAREI SE MI TROVASSI RINCHIUSO IN UNA CITTÀ DOVE FOSSE VIETATO, PENA LA MORTE, DARE ASILO A CITTADINI ACCUSATI DI CRIMINI POLITICI”; “Cours le politique constitutionne”, 1872, volume I, p. 248; precisamente alla luce di queste circostanze e delle coeve riflessioni di Constant è da considerarsi la controversia con Kant).
Se questo principio primo ha potuto essere accolto senza difficoltà, lo si deve unicamente ai princìpi intermedi.
Ma, mi si dirà, come scoprire i princìpi intermedi che mancano? Come arrivare quanto meno a sospettarne l’esistenza? Quali segni sussistono che esista l’ignoto?
Ogni volta che un principio, dimostratosi vero, sembra inapplicabile, è perché noi ignoriamo il principio intermedio che contiene la modalità d’applicazione.
Per scoprire quest’ultimo principio, occorre definire il primo. Nel definirlo, nel considerarlo in tutti i suoi rapporti, percorrendone l’intera circonferenza, troveremo il legame che lo unisce a un altro principio. In questo legame è, di solito, la modalità d’applicazione. Se non la si trova, occorre definire il nuovo principio al quale saremo stati condotti. Esso ci porterà verso un terzo principio, ed è fuor di dubbio che seguendo la catena perverremo alla modalità d’applicazione.
Prendo come esempio il principio morale che ho appena citato, che dire la verità è un dovere.
Questo principio, preso così com’è, è inapplicabile. Distruggerebbe la società. Ma, se lo rigettate, la società non ne sarà meno distrutta, giacché le basi della morale saranno sovvertite (di conseguenza, l’onestà diventa un valore relativo, sospeso, dipendente dalla situazione, non è più dunque un dovere assoluto; e proprio su questo insiste d’ora in poi il testo).
Occorre dunque cercare la modalità d’applicazione, e a questo scopo occorre, come abbiamo appena detto, definire il principio.
Dire la verità è un dovere. Che cos’è un dovere? IL CONCETTO DI DOVERE È INSEPARABILE DA QUELLO DI DIRITTO: UN DOVERE È CIÒ CHE, IN UNA PERSONA, CORRISPONDE AI DIRITTI DI UN’ALTRA PERSONA. LÀ DOVE NON VI È ALCUN DIRITTO, NON SI DÀ ALCUN DOVERE.
DIRE LA VERITÀ NON È DUNQUE UN DOVERE SE NON VERSO COLORO CHE HANNO DIRITTO ALLA VERITÀ (certamente, ma chi sarà a designare gli aventi diritto alla verità? Chi può affermare legittimamente che il tale ha diritto alla verità e che il tal’altro non può pretenderlo? Constant non lo dice, e possiamo soltanto supporlo; cfr. la nota successiva). MA NESSUN UOMO HA DIRITTO A UNA VERITÀ CHE SIA DI NOCUMENTO AD ALTRI (il limite del dovere è nel caso in questione il diritto. Così, se il mio dovere è di essere sincero, di dire la verità, ciò non è che in rapporto a un diritto. È sufficiente dunque che un individuo non abbia diritto alla verità perché cessi il dovere di veridicità nei suoi confronti e diventi legittimo il fatto di mentirgli. Nel caso posto da Constant, si può supporre che questi assassini molto semplicemente non hanno diritto alla verità perché essi non si pongono alcun dovere, in ogni caso non quello del rispetto della vita altrui. Non si può concedere un diritto all’assenza di un dovere senza correre il rischio dell’arbitrarietà. Di più, quel che qui è egualmente in gioco è un conflitto tra due doveri che si pretendono assoluti: il dovere della veridicità e quello di proteggere la vita altrui. Constant si rifiuta di fare del dovere di essere veridici un imperativo assoluto, perché si rifiuta di screditare il dovere di proteggere la vita altrui).
Ecco, così mi sembra, il principio divenuto applicabile. Definendolo, abbiamo scoperto il legame che lo univa a un altro principio, e la ricongiunzione di questi due princìpi ci ha fornito la soluzione della difficoltà che ci bloccava (così, come mostra Constant, se i princìpi sono troppo rigidi, finiranno con l’essere, in mancanza di possibili sfumature, rigettati dagli uomini, anche da quelli di buona volontà).
Osservate la differenza tra questo modo di procedere e quello di rigettare il principio. Nell’esempio che abbiamo scelto, l’uomo colpito dagli inconvenienti del principio che sostiene che dire la verità è un dovere, anziché definirlo e cercarne la modalità d’applicazione, si sarebbe accontentato di inveire contro le astrazioni, dicendo che non sono fatte per il mondo reale, e avrebbe ridotto tutto alla dimensione dell’arbitrarietà. Avrebbe inferto all’intero sistema della morale un tale scossone che ne avrebbero risentito tutte le sue articolazioni. Al contrario, definendo il principio, scoprendo il rapporto che lo lega a un altro principio, e in questo rapporto la modalità d’applicazione, abbiamo trovato l’esatta modificazione del principio della verità, che esclude qualsiasi arbitrarietà e incertezza.
Il fatto che ogni principio racchiuda, sia in se stesso, sia nel suo rapporto con un altro principio, la sua modalità di applicazione, è un’idea probabilmente nuova, ma, mi sembra, di notevolissima importanza.
UN PRINCIPIO, RICONOSCIUTO COME VERO NON DEVE DUNQUE MAI ESSERE ABBANDONATO, ANCHE SE DOVESSE PARERE PERICOLOSO. Deve essere descritto, definito, combinato con tutti i princìpi circonvicini, sin che non si sia trovato il modo di por rimedio ai suoi inconvenienti, e di applicarlo come va applicato.
La dottrina opposta è assurda nella sua essenza e disastrosa nei suoi effetti.
È assurda perché prova troppo e provando troppo si distrugge da sé. DIRE CHE I PRINCÌPI ASTRATTI NON SONO CHE TEORIE VANE E INAPPLICABILI, SIGNIFICA ENUNCIARE A PROPRIA VOLTA UN PRINCIPIO ASTRATTO. Perché questa opinione non è un fatto particolare, ma un risultato generale. Significa dunque enunciare un principio astratto contro i princìpi astratti e, per ciò stesso, tacciare di nullità il proprio principio. È CADERE NELLA STRAVAGANZA DI QUEI SOFISTI GRECI CHE DUBITAVANO DI TUTTO E FINIVANO COL NON OSARE NEMMENO AFFERMARE IL LORO DUBBIO (Constant, probabilmente. non intende parlare dei sofisti, ma degli scettici. Affermare che occorre dubitare di tutto si riduce a dubitare che occorra affermarlo! Pretendere che non ci sia che una verità e che essa consista nell’assenza di verità, sarebbe una contraddizione).
Oltre a questa assurdità, tale dottrina è disastrosa perché sfocia inevitabilmente nell’arbitrarietà più completa. Infatti, se non ci sono princìpi, non c’è nulla di fisso: non restano che delle circostanze, e ciascuno è giudice delle circostanze. Si passerà di circostanza in circostanza, senza che le rimostranze possano trovare un punto su cui far leva. DOVE TUTTO VACILLA, NESSUN PUNTO D’APPOGGIO È POSSIBILE. IL GIUSTO, L’INGIUSTO, IL LEGITTIMO, L’ILLEGITTIMO NON ESISTERANNO PIÙ, PERCHÉ TUTTE QUESTE COSE POGGIANO SUI PRINCÌPI, E CON ESSI CADONO. RESTERANNO LE PASSIONI CHE SPINGERANNO ALL’ARBITRARIETÀ, RESTERÀ LA MALAFEDE CHE NE ABUSERÀ, LO SPIRITO DI RESISTENZA CHE CERCHERÀ DI IMPADRONIRSENE COME DI UN’ARMA PER FARSI OPPRESSORE A SUA VOLTA: IN UNA PAROLA, L’ARBITRARIETÀ, QUESTO TIRANNO TEMIBILE SIA PER QUELLI CHE SERVE, SIA PER QUELLI CHE COLPISCE, REGNERÀ SOLA.
Esaminiamo a questo punto da vicino le conseguenze dell’arbitrarietà, e, come abbiamo provato che i princìpi ben definiti e perseguiti con esattezza pongono rimedio, col loro mutuo sostegno, a tutte le difficoltà, dimostriamo, se possibile, che l’arbitrarietà, la quale non può essere né definita né seguita nelle sue conseguenze, non elimina mai, di fatto, nessuno degli inconvenienti che essa in apparenza elimina, e non abbatte nessuna delle teste dell’idra se non per farne spuntare parecchie altre.
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L’idea dei “princìpi intermedi” di Constant e “L’idea di libertà”, 9° cap. de “La filosofia della libertà” di R. Steiner, si assomigliano in quanto riguardano sostanzialmente la stessa esigenza di individualismo etico superante il kantismo. Per Steiner non può arrivare al vero agire individuale chi manca della capacità di vivere nel singolo caso la specifica massima morale, e spiega che l’esatto contrario di questo agire individuale “è il kantiano ‘agisci in modo tale che le regole del tuo agire possano valere per tutti gli uomini’” (“L’idea di libertà”, op. cit.). Questo modo di pensare è per Steiner “la morte di ogni impulso individuale all’agire. Mi può essere di norma non il come farebbero tutti gli uomini, ma ciò che da parte mia ho da fare nel caso individuale. [...]. Gli uomini sono differenti quanto a capacità intuitiva. A uno le idee arrivano zampillando, un altro se le conquista a fatica. Le situazioni in cui vivono gli uomini, e che costituiscono la scena delle loro azioni, non sono meno diverse. Come un uomo agisca dipenderà dunque dal modo in cui la sua capacità intuitiva opera di fronte ad una data situazione. La somma delle idee operanti in noi, il contenuto reale delle nostre intuizioni, è determinato da ciò che, pur con tutta la universalità del mondo delle idee, è caratterizzato in ogni uomo in modo individuale. Questo contenuto intuitivo, in quanto rivolto all’agire, è la capacità morale dell’individuo. Il permettere la piena espressione di questa capacità è la più alta molla motrice morale e contemporaneamente il più alto motivo per chi capisce che in definitiva tutti gli altri principi morali si riuniscono in questa capacità. Questa ottica si può chiamarla INDIVIDUALISMO ETICO. [...] Chi agisce soltanto perché riconosce determinate norme morali, compie delle azioni che sono il risultato dei principi che si trovano nel suo codice morale. Egli ne è semplicemente l’esecutore. È un automa superiore. Gettate nella sua coscienza un’occasione d’agire e subito l’ingranaggio dei suoi principi morali si mette in moto e funziona secondo le regole per compiere un’azione cristiana, umanitaria, per lui disinteressata, oppure un’azione del progresso storico-culturale. Solo se seguo il mio amore per l’obiettivo, sono proprio io stesso ad agire. Quando agisco a questo gradino della moralità, non è perché riconosco un sovrano sopra di me, né l’autorità esteriore, né una cosiddetta voce interiore. Non riconosco alcun principio esterno del mio agire, perché ho trovato in me stesso la ragione dell’agire: l’amore per l’azione. Non esamino razionalmente se la mia azione sia buona o cattiva; la compio perché la AMO. Diventa “buona” se la mia intuizione d’amore è giustamente inserita nell’universale connessione intuitivamente vivibile; “cattiva” se ciò non si avvera. Non mi chiedo neanche: “Come agirebbe un altro uomo nel mio caso?”, bensì agisco così come io - questa individualità particolare - mi vedo disposto a volere. A condurmi direttamente non è il generalmente usuale, il costume generale, una massima generalmente umana, una norma morale, ma il mio amore per quell’azione. Non sento alcuna costrizione, né quella naturale che mi determina secondo i miei istinti, né quella dei comandamenti morali, ma voglio semplicemente attuare ciò che è in me” (ibid.).
Per qualsiasi tipo di obiezione a queste affermazioni rimando i difensori delle norme morali generali alla lettura integrale de “L’idea di libertà” (op. cit.). Occorre comunque saper guardare bene in noi stessi per affermare che si potrebbe allora rapinare u8na banca in n0ome dell’amore per l’azione. Così non è. “Che l’azione del delinquente, che il male siano chiamati espressione dell’individualità nello stesso senso dell’incarnarsi di un’intuizione pura, è possibile soltanto se gli impulsi ciechi sono attribuiti all’individualità umana. Ma l’impulso cieco, che spinge al delitto, non proviene dalla parte intuitiva e non appartiene alla parte individuale dell’uomo, bensì a ciò che vi è di più ordinario in lui, a ciò che è vigente in ugual misura in ogni individuo, e da cui l’uomo si libera mediante il lavoro sulla sua individualità. Ciò che è individuale in me non è il mio organismo con i suoi impulsi e sentimenti, ma l’unitario mondo delle idee che risplende in questo organismo. I miei impulsi, istinti, passioni, non fanno da fondamento a nient’altro in me se non al mio appartenere alla SPECIE GENERALE UOMO; la circostanza che in questi impulsi, passioni e sentimenti si esprima in modo particolare qualcosa di ideale, fa da fondamento alla mia INDIVIDUALITÀ. Per i miei istinti e impulsi io sono un uomo, dodici dei quali formano una dozzina; per forma speciale dell’idea mediante cui all’interno della dozzina mi qualifico come un io, io sono un individuo. Riguardo alla diversità della mia natura animale potrebbe distinguermi dagli altri solo un essere a me estraneo; mediante il mio pensare, cioè mediante l’afferrare attivo di ciò che di ideale si esprime nel mio organismo, mi distinguo io stesso dagli altri. Dell’azione del delinquente dunque non si può assolutamente dire che provenga dall’idea. Anzi, è proprio la caratteristica delle azioni delittuose il loro derivare dagli elementi extraideali dell’uomo. Un’azione è sentita come libera in quanto il suo fondamento procede dalla parte ideale del mio essere individuale; ogni altra parte di un’azione, non importa se compiuta per costrizione naturale o necessità di norma morale, è sentita come NON LIBERA [...] VIVERE nell’amore per l’agire e LASCIAR VIVERE nella comprensione per il volere altrui è la massima fondamentale degli UOMINI LIBERI” (ibid.).
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Carlo Lottieri
L’Illuminismo: una verità disincarnata
- a cura di Nereo Villa -
Il rapporto tra potere e verità, menzogna e controllo sociale, si complica ancor di più con l’avvento dell’Illuminismo.
In ambito giuridico, ad esempio, è la lotta condotta in nome della “raison” contro il disordine del diritto comune che permetterà ai governanti di farsi anche legislatori, monopolizzando la produzione delle norme. Il perfezionamento amministrativo del “Polizeystaat” settecentesco e il riformismo caratteristico di questa epoca vanno incontro a esigenze ben precise della società, ma poi finiscono in larga misura per potenziare la tecnologia del potere.
In questo senso, è un certo progetto di razionalizzazione della realtà che porta l’Illuminismo ad assumere i suoi tratti più liberticidi. La cultura dei lumi non si sviluppa esclusivamente quale valorizzazione della conoscenza tecnica, quale liberalismo penale e quale superamento in senso competitivo dell’economia mercantilista. Queste sono le autentiche glorie dell’Illuminismo ed è giusto ricordarle in ogni occasione. Ma tale cultura predispone pure un ammodernamento dell’apparato statuale e una simile evoluzione rende ancora più spietato il controllo che il potere esercita sulla società (basti pensare al Panopticon benthamiano. Sul tema resta obbligatorio il riferimento a M. Foucault, “Sorvegliare e punire”, Ed. Einaudi, Torino 1993), giungendo - con un autore di primaria importanza quale Kant - a combattere perfino ogni possibilità di dissimulazione difensiva. È proprio entro questo quadro che si definisce il trionfo definitivo degli orientamenti filosofico-politici che negano esplicitamente ogni diritto di resistenza. E non deve neppure sorprendere che in un’Europa che si apre progressivamente la strada verso una “retorica della trasparenza” le istituzioni finiscano per essere sempre più pervase da trame e poteri occulti (in questo senso, il complesso intreccio del “Flauto magico” di Mozart - il libretto si deve a Emanuel Schikaneder - rappresenta forse la migliore rappresentazione simbolica di tutto ciò).
In tale fase della modernità, la dissimulazione conosce la stessa legittimazione che François de La Rochefoucauld attribuiva all’ipocrisia (“ultimo baluardo della virtù”). Le vittime vi fanno ricorso anche per legittima difesa, mentre i potenti l’utilizzano perché non è permesso loro (non ancora) di agire al fuori di ogni criterio normativo superiore. Una strategia ragionevole può consistere allora nel negare la realtà o nel sottrarsi ad essa; per questo in varie circostanze e pure in culture assai diverse “si evita che una situazione che crea problemi si produca oppure, se ciò succede, si fa finta di non vederla, ricorrendo al silenzio, alla finzione, anche alla menzogna. [ ... ] La malattia diplomatica è una delle tecniche che permettono di ritardare una scelta sgradevole, un sacrificio penoso, ma tutto questo al prezzo di una menzogna” (C. Perelman , “L’empire rhétorique. Rhétorique et argumentation”, Vrin, Paris 1977, p. 75). Presto questa ambiguità verrà però superata e la cosa non attesta necessariamente un progresso.
Al riguardo è fondamentale la controversia che oppose Immanuel Kant e Benjamin Constant in merito al diritto di mentire (si veda: I. Kant T, B. Constant, “La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica”, a cura di Andrea Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 1996). Entro tale confronto, Kant afferma che l’impossibilità di dire il falso deriva da un obbligo assoluto che investe l’Io in quanto tale: anche quando ciò dovesse comportare la morte di un innocente. Se sul piano morale la metafisica dei costumi si delinea grazie al rapporto del singolo con imperativi categorici astratti e universali, è chiaro che nessun uomo (e per nessun motivo) può sottrarsi a simili obblighi. In questo schema, però, la relazione etica cruciale connette il soggetto a se stesso, alla sua coscienza, e Kant arriva a sostenere - in parte sollecitato proprio da quella che fu una “forzatura” di Constant medesimo (Kant accetta l’esempio avanzalo da Constant e afferma che effettivamente anche nel caso-limite immaginato dall’autore dei Principes è necessario rispettare l’imperativo morale che impone di affermare sempre la verità. È possibile che Constant abbia attribuito a Kant quella tesi movendo da un passo della seconda “Critica”: “Non si è forse accorto, una volta o l’altra, qualunque uomo, anche solo mediocremente onesto, di evitare una menzogna, del resto innocua, con cui poteva o trarsi da uno spiacevole impiccio o addirittura giovare a un caro e degno amico, solo per non dover disprezzare se stesso nel segreto della sua coscienza? E un uomo per bene, nella più profonda disgrazia della vita, che avrebbe potuto evitare se soltanto fosse venuto meno al dovere, non è forse sostenuto dalla coscienza di aver tuttavia rispettato e onorato la dignità dell’umanità nella sua persona, di non doversi vergognare di fronte a se tesso, di non dover tenere lo sguardo interiore di un esame di coscienza? Questa consolazione non è la felicità. Non è neppure la minima parte di essa, perché nessuno si augurerebbe l’occasione di provarla; e, forse, neppure di vivere in tali contingenze. Ma egli vive, e non può tollerare di essere, ai suoi propri occhi, indegno della vita”; I. Kant, “Critica della ragion pratica”, a cura di Vittorio Mathieu, Ed. Rusconi, Milano 1993, p. 189) - che la protezione della propria purezza possa comportare perfino il sacrificio di un uomo ingiustamente braccato dal potere.
La visione kantiana è intellettualistica in due sensi: perché ritiene che l’obbligo di dire la verità sia un principio generale (di fronte al quale un uomo retto non deflette mai), e poi perché la regola di non mentire in nessuna circostanza è riconosciuta assoluta sulla base del fatto che non si può universalizzare la pretesa di non dire il vero (nel “De mendacio” Agostino sembra abbracciare una prospettiva non lontana da quella kantiana, opponendosi - anche grazie a un’ermeneutica dei testi acri - a ogni ipotesi che legittimi la menzogna. Ma in realtà il quadro è completamente diverso dato che il Padre della Chiesa discute l’alternativa tra verità e falsità non in astratto, ma essenzialmente in rapporto alle questioni di fede e quindi chiedendosi se un cristiano può rinunciare ad annunciare la verità del Vangelo se ciò può essere strumentale alla stessa conversione di altri uomini. La conclusione, per giunta, è ben lontana dal rigorismo di Kant: “Quanto alla menzogna dunque, o la si evita comportandosi rettamente, o la si confessa e ci si pente. Né deve succedere che la si faccia proliferare rendendo miserabile la nostra vita e, tanto meno, che la si moltiplichi insegnandola ad altri. Se qualcuno ritiene lecito mentire quando si tratta di soccorrere il prossimo in pericolo per la salute tanto fisica che spirituale, scelga pure qualsiasi tipo di menzogna; ma che almeno anche costoro ci concedano che per nessun motivo si può giungere fino allo spergiuro e alla bestemmia” (Agostino, “De mendacio”, XXI, 41, i corsivi sono miei).
Qui la vita etica è intesa essenzialmente quale adesione a principi di carattere generale: e in tal senso non sorprende che Kant abbia avuto un ruolo cruciale nella costruzione del “Rechtsstaat” continentale, caratterizzato dall’identificazione tra diritto e universalismo delle regole (a tale riguardo, le critiche indirizzate da Leoni alle tesi di Hayek esposte in “The Constitution of Liberty” - e in scritti precedenti poi rifusi in quel volume - rappresentano una critica radicale - anche senza volerlo - della matrice latamente kantiana di quella formulazione teorica. Si veda ad e empio: B. Leoni, “Testo stenografico dell’intervento”, 4 settembre 1957, Mont Pélerin Socìety, meeting di St. Moritz, in “Il Politico”, n. 3, 1957, pp. 708-709). Lo stesso nucleo morale della pratica pietista che si può riconoscere sullo sfondo di tale riflessione è più un criterio astratto e un fondamento necessario - la “Grundnorm” etica in condizione di sorreggere l’intero sistema - che non il riconoscimento di persone incontrate e divenute parte della propria esperienza. In qualche modo, l’etica occidentale sconta qui tutte le conseguenze derivanti dall’aver adottato all’interno della filosofia pratica il concetto stesso di legge, sorto dapprima in ambito giuridico e poi applicato analogicamente nei trattati sulla morale.
Per l’illuminista Kant al centro delle preoccupazioni vi è quella pubblicità (che è “Publizität”, ossia “trasparenza”, ma al tempo stesso “Öffentlichkeit”, da intendersi quale “spazio pubblico”, condizione stessa dell’accessibilità del diritto che trova forma compiuta nel sistema giuridico, da lui sempre inteso come l’ordine statuale in grado di trascendere le singole individualità (commentando un testo di Alexandre Koyré sulla menzogna politica Derrida ricorda, contro ogni pretesa semplificatrice, che “l’opposizione veracità/menzogna è omogenea a una problematica testimoniale, e niente affatto a una problematica epistemica del vero-falso e della prova”. Qui non si tratta di negare ogni verità, bensì di muoversi in maniera non ingenua. Ma oltre a questo il filosofo francese si chiede giustamente se l’ossessione moderna per la trasparenza “non annunci […] un’egemonia assoluta della ragion politica, di un’estensione senza limite della sfera del politico”; J. Derrida, “Breve storia della menzogna. Prolegomeni”, Ed. Castelvecchi, Roma 2006, p. 80 e p. 85). Nello scritto intitolato “Per la pace perpetua” egli individua nel seguente principio la formula trascendentale del diritto pubblico: “Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità [Publizität], sono ingiuste” (I. Kant, “Per la pace perpetua”, 1795, Appendice II: “Dell’accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico” in “Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto” UTET, Torino 1995, p. 328).
Qui non è però la trasparenza del potere che sta a cuore, ma quella della società. E di conseguenza non ci si può sorprendere se entro la prospettiva del pensatore tedesco viene meno ogni diritto di resistenza - difeso invece da una lunga tradizione, dalla Seconda Scolastica a John Locke - dato che “l’ingiustizia della ribellione si rende chiara da questo: che la massima di essa, qualora fosse pubblicamente conosciuta, renderebbe impossibile il suo proprio scopo” (ibid., p. 331. Nella “Metafisica dei costumi” Kant afferma che “contro il supremo legislatore dello Stato non vi può dunque essere nessuna resistenza legittima da parte del popolo, perché soltanto grazie alla sottomissione di tutti alla sua volontà universalmente legislatrice è possibile uno stato giuridico”; I. Kant, “La metafisica dci costumi”, I, parte II, sezione I, nota A [Nota generale sugli effetti giuridici derivanti dalla natura della società civile], Ed. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 150). Kant ritiene contraddittoria la creazione, da parte del popolo, di un potere irresistibile (che ai suoi occhi è la condizione necessaria della pace e del diritto) a cui poi qualcuno pretendesse di “opporsi” e di fronte al quale ci si potesse ribellare (in questo senso, Kant non offre alcuna possibilità di contrasto di fronte all’imporsi di una prospettiva giuspositivistica, poiché l’esito conseguente delle assunzioni che sono alla base della teoria del “Rechtsstaat” è nell’identificazione di legalità e giustizia. Come scrive Passerin d’Entrèves, «separato nettamente il “diritto come fatto” e il “diritto come valore”, eliminato dalla considerazione del diritto ogni riferimento valutativo o contenutistico, condizione unica ed esclusiva per l’esistenza di un ordinamento giuridico diventa la sua “efficacia’; cioè la sua esistenza di fatto, ed ogni Stato, in quanto ordinamento giuridico, è, per definizione, uno “Stato di diritto”» (A. Passerin D’Entrèves, “La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione”, Ed. Giappichelli, Torino 1962, p. 208).
Tale esito liberticida è comunque correlato al fatto che la stessa esperienza etica è ridotta a “puro dovere”: adesione a una norma (Gesetz) che confina la vita morale nel più rigido legalismo (diversa è la posizione di Rousseau nella quarta “promenade” delle sue “Réveries du promeneur solitaire”, dove afferma che sostenere che si debba sempre essere veraci significa “chiudere la questione senza averla risolta”. Il guaio è che il ginevrino sposa una sorta di spontaneismo emotivo: “non ho mai agito secondo una regola, o non ho mai seguito altra regola che gli impulsi della mia indole [naturel]” (J.-J. Rousseau, “Réveries du promeneur solitaire”, Slatkin, Genève 1995, p. 109 e p. 121). L’atto del mentire rappresenta “la maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso” (I. Kant, “La metafisica dei costumi”, II, libro I, parte I, § 9, p. 287. In merito a tutto questo è interessante quanto Lévinas scrive nel 1990 per “Critical Inquiry” nel breve testo volto a introdurre la ripubblicazione di “Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme”, del 1934. Lévinas rievoca la rilettura del liberalismo sviluppata in quelle pagine, riferendosi a quel “soggetto dell’idealismo trascendentale che innanzitutto si vuole e si crede libero”, aggiungendo che “dobbiamo chiederci se il liberalismo possa bastare alla dignità autentica del soggetto umano. Il soggetto raggiunge la condizione umana prima di assumere la responsabilità per l’altro uomo nell’elezione che lo eleva a questo grado?”; E. Lévinas, “Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo”, Ed. Quodlibet, Macerata 1996, pp. 21-22). Ma a questo punto l’enfasi sull’intenzione svuota d’interesse la concretezza dell’atto, il suo incontrare la realtà: l’altro uomo è dissolto, poiché la vita morale del singolo basta a sé, al punto da degradare il prossimo a mera “occasione” di una propria perfezione interìore? (sebbene lontano da ogni Romanticismo, qui Kant porta alla mente talune analisi di Denis de Rougemont sull’evoluzione dell’amore nella civiltà occidentale. Nel suo saggio, de Rougemont ha acutamente rilevato come nel “romance” - e fin dalle origini - quell’“altro da sé” che è occasione di infatuazione e innamoramento spesso non ha tratti definiti, poiché è semplicemente funzionale all’“amour passion” che domina il soggetto. Nel medesimo testo, così, Isotta può essere descritta quale bionda o mora, perché in realtà non ha una presenza propria, ma la sua realtà è meramente funzionale all’estasi - di fatto solitaria - di un Tristano che è attratto dall’innamoramento stesso più che dalla donna in carne ed ossa che è dinanzi a lui. Si veda: D. De Rougemont, “L’amore e l’Occidente”, Ed. Rizzoli, Milano 1977). L’eclissi del “Lebenswelt” annulla ogni esigenza di equità, così che il caso particolare smarrisce la sua peculiarità e il soggetto della stagione kantiana è incapace di usare la necessaria umanità che talune circostanze possono esigere (Tagliapietra evidenzia come in Kant venga meno “la pietà dell’eccezione”; A. Tagliapietra, “Il diritto alla menzogna. Kant, Constant, politica della verità e politiche dell’amicizia”, introduzione a I. Knt - B. Constant, “La verità e la menzogna”, op. cit., p. 27).
Nella filosofia kantiana la veridicità assoluta è al servizio dell’Io e della sua perfezione, ma è pure premessa alla possibilità di una collettività in grado di rappresentarsi trasparente. A giudizio di Charles Taylor, con Rousseau e poi con Herder s’afferma l’idea che “ciascuno di noi ha una sua maniera originale di essere uomo” (C. Taylor, “Il disagio della modernità”, E. Laterza, Roma-Bari 1994, p. 35): è il mito moderno dell’autenticità. Ma quando questo diventa il proprio ideale, in qualche modo l’essere finisce per coincidere con il dover essere, e soprattutto viene meno l’idea stessa che la relazione interpersonale sia l’orizzonte della vita morale.
All’interno di una riflessione di ordine filosofico-politico, è importante cogliere come l’Io individuale di un’etica basata dovere introduce al grande Io di una “Gemeinschaft” che si esprime e concretizza nella “volonté générale” (la continuità con Rousseau appare evidente a più livelli, anche se - a giudizio di Gierke - Kant “continuò a identificare lo Stato con la somma degli individui associati, e la volontà generale sovrana col volere concorde e unitario di tutti”, dato che “egli sostituì completamente alla sovranità di un soggetto vivente quella della astratta legge della ragione” (O.Von Gierke, “Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle dottrine politiche giusnaturalistiche”, Einaudi, Torino 1943, pp. 158-159). L’esigenza .di una veridicità assoluta difesa dal filosofo tedesco è quindi eminentemente politica, dato che l’esistenza di un’autentica comunità è condizione perché vi sia vita sociale, e il mentitore abolisce la società” (I. Kant, “Sui doveri etici verso gli altri. La veridicità”, 1775-81, in I. Kant – B. Constant, “La verità e la menzogna”, op. cit., p. 235). Sullo fondo è facile riconoscere le esigenze di chi sta edificando il “Rechtsstaat” e persegue quindi una certa idea di diritto e giustizia (a questo proposito va ricordata la tesi di chi, come Gottfried Dietze, ha affermato che “la strada fra lo Stato di diritto di Mohl e lo Stato di potenza (“Machtstaat”) di Hitler è una strada lunga”, ma essa “è molto meno tortuosa di quanto si immagini”; e questo proprio in ragione del fatto che “a causa della sua progressiva formalizzazione, lo Stato di diritto era alla mercé della migliore e della peggiore legislazione, del migliore o del peggiore diritto positivo”; G. Dietze, “Lo Stato di diritto nel diritto naturale e nel diritto positivo”, in S. Noto, a cura di, “Alessandro Passerin d’Entrèves pensatore europeo”, Ed. il Mulino, Bologna 2004, p. 222 e p. 224).
La discussione sul reale o presunto “kantisrno” di Adolf Eichmann, che nel processo tenutosi a Gerusalemme “dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere” (H. Arendt, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, Ed. Feltrinelli, Milano 1999, pp. 142-143), può qui offrire qualche spunto illuminante. Hannah Arendt ha ragione quanto evidenzia come nel protagonista della Endlösung (la soluzione finale) vi sia un’inconsapevole distorsione della morale kantiana; per giunta, sarebbe assai poco caritatevole, oltre che anacronistico, immaginare che la “Critica della ragion pratica” sia da porsi in diretta connessione con il nazismo. Ma è pur vero che, in Kant, il formalismo dell’etica e il legalismo della filosofia politica hanno reso possibile questa controversia. La morale si fa semplice dovere dinanzi a una norma e tale obbligatorietà si ripresenta con caratteri assai simili nella negazione di ogni diritto a rivoltarsi” (sulla questione si vedano: N. Ranasinghe, “Ethics for the Little Man: Kant, Eichmann, and the Banality of Evil”, in “The Journal of Value Inquiry”, 36, n. 2-3, giugno 2002, pp. 299-317; C. B. Laustsen, R. Ugilt, “Eichmann’s Kant”, in “The Journal of Speculative Philosophy”, vol. 21, n. 3, 2007, pp. 166-180.).
Quando la Arendt tratteggia Eichmann come un uomo terribilmente normale (“Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali” (H. Arendt, “La banalità del male”, op. cit., p. 282), la banalità assume due caratteri fondamentali, che possono in qualche modo essere ricondotti a Hobbes e Kant.
In primo luogo egli sposa il male in ragione della sua ossessiva volontà di “realizzarsi”: conseguendo il successo. Il “self-interest” non va demonizzato, ma qui esso si colloca entro un quadro hobbesiano che nega ogni dignità agli altri e celebra il trionfo di un’antropologia integralmente materialistica e autocentrata, che è tanto più dominata dall’aggressività quanto più è tenuta in scacco dalla paura (per questa interpretazione del rapporto tra il totalitarismo e un “self-interest” assolutizzato e senza limiti, si leggano le pagine consacrate a Hobbes: H. Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1967, pp. 193-204).
Questo individualismo ha tratti assai particolari. Come si è già sottolineato lo stato di natura che in Hobbes precede l’instaurarsi dell’ordine statale è contraddistinto dall’assenza del diritto e, più precisamente, del diritto di proprietà (nella sua riflessione sull’individualismo di Eichmann, Shiraz Dossa ne coglie il carattere hobbesiano, riconoscendo pure come l’individualismo di Locke sia di tutt’altra natura. Il giudizio è corretto, ma le ragioni che offre sono ben lungi dall’essere convincenti. Il “liberale lockiano” è strutturalmente diverso dall’individuo hobbesiano e eichmanniano non già perché “secondo Locke la dimensione pubblica e il bene pubblico sono elementi degni e necessari all’interno dei calcoli dell’uomo liberale”; S. Dossa, “Hannah Arendt on Eichmann: The Public, the Private and Evil”, in “The Review of Politics”, vol. 46, n. 2, aprile 1984, p. 170;, ma semmai perché l’antropologia cristiana e giusnaturalista dell’autore dei “Treaties” lo costringe a prendere costantemente in considerazione l’esistenza degli altri: che sono individui da rispettare e con cui è possibile interagire e cooperare). Ma negare la proprietà significa abolire l’alterità stessa (la Arendt evidenzia come il totalitarismo faccia venir meno ogni spazio privato - e dunque la stessa privacy - ed egualmente sottolinea che la violenza di un piccolo uomo quale Eichmann sia stata motivata da ambizioni illimitate che finirono per assolutizzare la privacy medesima entro un quadro, però, in cui alterità e proprietà erano state totalmente abolite; e questo perché egli mostrò sempre “eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera” (H. Arendt, “La banalità del male, op. cit., p. 290).
Il secondo elemento, cruciale per comprendere il funzionario dello sterminio va individuato nel fatto che in Eichmann si ha il venir meno di ogni responsabilità e ciò è dovuto al trionfo di decisioni di carattere impersonale: la coscienza è assorbita da logiche funzionali, così che a un certo punto non “agisce”, ma semplicemente “esegue”. In qualche modo egli abdica alla sua umanità in quanto è solo un burocrate e nient’altro. Tale dissolversi della moralità nella mera adesione alle regole è però incomprensibile al di fuori di una storia istituzionale che ha il proprio compimento nel “Rechtsstaat”. In questo senso, la logica eticizzata di uno Stato di diritto che è essenzialmente “forma” - e che ancor più lo diverrà nel suo sviluppo positivistico - è ciò che in qualche modo connette la speculazione kantiana agli esiti drammatici della storia tedesca del Novecento (bisogna ricordare, come sottolineò Del Noce, come “si possa benissimo stabilire di fatto una tirannide, nel rispetto formale dello Stato di diritto» (A. Del Noce, “Il problema dell’ateismo”,Ed. il Mulino, Bologna 1964, p. 307 e n. 8).
Quando Eichmann ricorda che per due volte non rispettò il sacro dovere kantiano di obbedire al diritto (nel momento in cui aiutò un parente di origini ebraiche e anche una famiglia segnalatagli da uno zio), subito però aggiunge di aver poi «“confessato le sue colpe” ai superiori»!” (H. Arendt, “La banalità del male”, op. cit., p. 144). Nonostante l’umana debolezza, alla fine il senso del dovere aveva prevalso. Se il peccato consisteva nell’aver anteposto l’esperienza di un incontro alla logica di una regola astratta, questo significa che la criminalità banale dello sterminio era nella sua essenza l’espressione di un legalismo che identificava legittimità e legalità[la sottolineatura in grassetto è mia - ndc], ma che soprattutto attribuiva a quest’ultima l’aura di un “dover essere” a cui non ci si doveva sottrarre.
Al rigorismo di Kant e alle derive giacobine di un diritto totalmente disincarnato è allora opportuno contrapporre l’umanità (seppure non priva di tratti incoerenti) di Constant, che nel rigettare le tesi del filosofo tedesco pone al centro della scena l’esigenza di contemperare ragioni e principi diversi. Questa maggiore attenzione al singolo e alla sua complessità proviene da una differente concezione filosofico-politica. Mentre Kant trasferisce la sovranità assoluta dello Stato moderno dalla persona del monarca all’impersonalità delle leggi (è interessante ricordare che Kant ritenga legittima la pena di morte, contro la tesi di Cesare Beccaria, secondo cui l’individuo non può - entrando in società - consegnare al potere il controllo sulla propria vita, che è un bene indisponibile. È sicuramente vero che in Kant la pena capitale discende da una concezione retributiva, in ragione della quale l’assassino deve essere giustiziato “affinché ciascuno porti la pena della sua condotta”; I. Kant, “La metafisica dei costumi”, op. cit.; ma questo passaggio non sarebbe stato possibile se per il filosofo tedesco il legislatore non fosse la collettività stessa e se ciò non permettesse il trasferimento del diritto alla vita dal singolo allo Stato. La questione è cruciale perché conferma come la “politica” kantiana sia un universo giacobino: non una società libera fatta di convenzioni stipulate da individui titolari di diritti naturali, ma invece una costruzione razionale che prescinde dal consenso dei singoli e non rinvia più al proprietario lockiano, ormai del tutto privato del suo “fortilizio” originario), in Constant vi è una decisa critica del potere politico in quanto tale, insieme al progetto di una sua limitazione (ecco come Constant si esprime in merito al potere illimitato: “Gli uomini e le classi, investiti da poteri senza limiti s’inebriano di questi poteri. Non bisogna mai supporre che, in alcuna circostanza, una potenza illimitata possa essere ammissibìle, e, nella realtà, essa non è mai necessaria”; B. Constant, “Sugli effetti del Terrore”, in I. Kant - B. Constant, “La verità e la menzogna”, cit., p. 139).
L’autore svizzero non rinuncia all’idea che vi siano principi, ma distingue tra principi primi e intermedi, sottolineando come sia “fuor di dubbio che i principi astratti della morale, se fossero separati dai loro principi intermedi, produrrebbero tanto disordine nelle relazioni sociali degli uomini quanto i principi astratti della politica, separati dai loro principi intermedi, devono produrne nelle relazioni civili”. Egualmente, “quando si dice che i principi generali sono inapplicabili alle circostanze, si dice semplicemente che non si è coperto il principio intermedio richiesto dalla combinazione particolare di cui si occupa” (B. Constant, “Sulle reazioni politiche”, in I. Kant – B. Constant, “La verità e la menzogna”, op. cit., p. 209 e p. 204).
In Constant la distinzione tra principi primi e intermedi intende salvare - contro le tesi di Edmund Burke e i suoi possibili esiti relativisti - l’idea che esistano principi di carattere generale, e al tempo stesso intende però contestare - contro le tesi di Kant e i suoi inevitabili esiti assolutisti - l’idea che essi possano bastare a dirci come dobbiamo agire. In tal modo, l’autore dei “Principes de politique” prende a cuore soprattutto il rapporto delle norme con le situazioni: con l’altro e con la realtà effettiva della persona che incontriamo lungo la nostra strada (in “Sleepers” di Barry Levinson, un fìlm del 1995 tratto da un romanzo di Lorenzo Carcaterra, una figura moralmente esemplare è padre Bobby, un sacerdote che testimonia il falso in tribunale - dopo aver giurato sulla Bibbia - allo scopo di salvare due ragazzi, ormai divenuti killer e tossicodipendenti, che a molti anni di distanza dalle violenze subite hanno ucciso un sorvegliante della prigione che ha aveva imposto loro ogni genere di sofferenza).
C’è qui l’anticipazione di temi che saranno cruciali nella riflessione di Emmanuel Lévinas, per il quale l’esperienza dell’altro è da anteporre a ogni universalismo astratto: “in Kant è l’universalità della massima che determina l’imperativo categorico; per me è altri come persona che determina l’imperativo categorico. In questo secondo caso l’universalità, anziché precedere, verrebbe dedotta” (E. Lévinas, P. Ricoeur, “Giustizia, amore e responsabilità. Un dialogo tra Emmanuel Lévinas e Paul Ricoeur, in E. Lévinas, G. Marcel, P. Ricoeur, “Il pensiero dell’altro”, Edizioni Lavoro, Roma 1999, p. 79). Entro questa prospettiva è ingiustificabile il comportamento di chi pretende di salvare la propria integrità morale (la propria astratta perfezione) anche a costo di immolare la vita di un suo simile bisognoso di protezione (un autore liberale che non assolutizza il dovere di dire la verità è Antonio Rosmini, che antepone la libertà giuridica del singolo a ogni astratto dovere di non mentire o essere sempre veridici. Ecco cosa scrive in merito: “un uomo per sé non ha diritto di pretendere da un altro che gli comunichi le cognizioni da lui possedute: questa comunicazione appartiene alla beneficenza, e non al dovere giuridico. Laonde se un uomo risponde ad un altro: “io non voglio dirvi nulla di ciò che volete sapere”, egli non esce con ciò dal giusto, considerato giuridicamente; rimansi entro la sfera del suo, e non invade l’altrui”; A. Rosmini, “Filosofia del diritto”, vol. I, Ed. Cedam, Padova 1967, p. 202).
Constant punta a evitare l’esito a cui pervengono quanti non vogliono saperne di principi perché intendono sposare una prospettiva integralmente utilitarista, ma al tempo stesso si propone di proteggere la complessità del reale. Si intende così scongiurare egualmente il dispotismo dei “partigiani dell’arbitrio”, senza per questo illudersi che si possa derivare ogni corretto comportamento da criteri generali e astratti (ibid. p. 215). Quanto questo avesse evidenti intenzioni politiche è messo in risalto da Andrea Tagliapietra quando sottolinea che “mentre Kant mira soltanto a sostituire la fonte del potere sovrano, spostando l’assolutismo personale del monarca in direzione della formale impersonalità della legge, ma conservandone integralmente le caratteristiche coercitive e totalitarie - ossia di “vincolo incondizionato” - Constant mette in discussione la qualità stessa del potere, la forma che esso può assumere nell’ambito complesso della modernità” (A. Tagliapietra, “Il diritto alla menzogna. Kant, Constant, polica della verità e politiche dell’amicizia”, op. cit., p. 57).
Grazie all’artificio dei principi intermedi Constant sottrae la morale al rigorismo doverista: la valorizzazione dell’alterità si accompagna alla riscoperta dell’eccezione e di quella molteplicità che il legalismo di tradizione continentale ha preteso di cancellare (il fossato che separa il progetto di autoperfezione delineato da Kant e il senso vivido della realtà espresso da Constant delinea uno spazio problematico grazie al quale è possibile trovare anche un’utile chiave di lettura di talune tensioni interne al liberalismo classico e ai suoi sviluppi libertari, opponendo a un liberalismo caratterizzato dal riconoscimento originario dell’alterità un altro liberalismo, tutto centrato sull’Io e anche predisposto - in speciali circostanze - ad esaltare un Io collettivo e misticamente inteso).
In latino “Res Publica” significa “Cosa pubblica”. Ma solo in latino, dato che la nostra Repubblica significa in realtà “Cosa nostra”, cioè MAFIA, e la nostra “democrazia” permane un’impossibilità pratica. Infatti, senza la previa eliminazione del monopolio dell’emissione monetaria, tutto l’impianto informativo sembra finalizzato al “divide et impera” dell’imperialismo romano oggi “democraticamente” imperante, come se il “demo” (pluralità) della “crazia” (governo) non significasse sovranità popolare o governo del popolo ma il suo esatto contrario: dittatura, assolutismo totalitario, monocrazia.
Ma la democrazia non è monocrazia.
Io vado al mercato per comprare o per vendere qualcosa, dando per scontato che chi vende o chi compra concorre al suo scopo solo se lo scambio mercatorio è conveniente. Conveniente lo è però solo se lo scambio è democraticamente bilanciato da ciò che è giusto in base al sentimento di uguaglianza da uomo a uomo, venditore o compratore che sia.
Quando però lo Stato democratico garantisce la possibilità della concorrenza attraverso la vessazione dei nativi con scelte obbligate a sostegno dello status quo monopolistico, significa che la libera scelta è impedita e, con essa, è impedita l’uguaglianza.
Lo Stato allora promuove NON la democrazia ma un ingiusto mezzo per attuarla. L’antico adagio del fine che giustifica i mezzi dovrebbe essere allora un anacronismo da superare, dato che il mezzo ingiusto rende iniquo il fine giusto. Senza la rimozione del mezzo ingiusto, che in questo caso è il monopolio di emissione monetaria concesso alla banca centrale DALLO STATO nel 1926 (dovrebbe essere detto ai signoraggisti che credono ancora oggi nell’aggiustamento del mondo tramite la statalizzazione del monetaggio), non può dunque esservi democrazia alcuna, né garanzia di concorrenza democratica o di libera scelta di scambio economico.
L’economia politica è già in sé un’ambiguità in quanto contiene due logiche contrarie: la logica economica della distruzione delle merci per renderle rare e la logica politica che se fosse onesta dovrebbe giuridicamente impedirlo). Ecco perché poi l’economia politica del gioco borsistico sostituendo l’economia reale manda tutto in rovina. Per poter controllare i prezzi di borsa e manovrarli basta l’illimitata disponibilità oggi in mano ai signori del monopolio di emissione dei soldi (ovviamente costoro non sono i soli responsabili della rovina, dato che non solo gli statalisti sono i parassiti che possono permettersi di giocare in borsa, allo stesso modo dei controllori e dei manipolatori di capitali).
Il monopolio di emissione della moneta fu possibile in quanto nessuno pensò che con esso lo Stato si sarebbe comportato ancora da imperatore, cioè in modo tutt’altro che democratico.
Questa palese aporia fra democrazia e scelte obbligate fece dello Stato un traditore della Repubblica perché trasformò la cosa pubblica (res publica) in “cosa nostra”, o cosa dell’imperatore, cioè dell’anacronistico impero romano occultamente riciclato, dato che Roma imperiale aveva imposto il suo primo monopolio sulla coniazione delle monete già nel 1° secolo dopo Cristo!
Chi oggi parla di democrazia o di Repubblica democratica dovrebbe pertanto ritenere impensabili sia le dinamiche del monopolio di un imperatore assente che signoreggia però kantianamente come imperativo categorico, sia le dinamiche borsistiche.
Come in un organismo umano è impensabile che un organo cerchi di prelevare sangue ad un altro perché quest’altro è infortunato o sta crollando, così in quanto individui soci dell’organismo sociale non dovremmo ridurci a cercare solo di prelevare soldi a chi è meno fortunato e sta crollando.
Eppure questa è l’attività dei giocatori borsistici, sostenuta dai banchieri biscazzieri e dai politici loro camerieri, attraverso menzogna su menzogna. se d’inverno la casa è fredda e il termometro segna sotto zero, per riscaldarmi devo riscaldare la stanza, non dimostrarla calda. Per la mera dimostrazione basta un fiammifero: lo accendi e lo avvicini al termometro, e immediatamente il termometro segna che la temperatura si sta alzando. Intanto tu però muori assiderato. Se vuoi scaldarti devi lavorare, pagare il gas che consumi o raccogliere legna e metterla a bruciare nella stufa. Un solo fiammifero non ti può bastare!
Eppure oggi con dimostrazioni e con giochetti di parole ci si comporta come se quel fiammifero potesse bastare: la borsa funziona dunque secondo questo sdoppiamento di giudizi di valore magicamente trasformati in “oscillazioni di borsa”: bastano le parole di qualche politico a produrle.
I problemi economici però rimangono. Il freddo rimane. Questa diavoleria è dovuta al fatto che nell’attuale nostro pensiero debole saltiamo passaggi importanti, dando per scontata questa o quella giustizia della morale convenzionale proveniente e diretta da fuori di noi.
Credo che dovremmo avvicinarci maggiormente a tali passaggi. E “La filosofia della libertà” di Rudolf Steiner offre ad ognuno la libera conoscenza di essi...
Testo: Mino Vincenzi
Musica: Paul Di Biasi & Nereo Villa
Incerto domani
Chi vivrà vedrà
Tetti bianchi
Di cemento
Qui e là
Di un passato
Non lontano
Era l’avvento del mostro
Di cemento
Cancro
Val d’Arda che tace
E muore pian piano
Di sapientoni
Becchini
Che ti
Danno una mano
Tutto è a posto
Non c’è il minimo errore
Nella
Carta
Impresa
E appalto
Il gatto e la volpe
I sapientoni
Becchini
Marci
Danno una mano
Senza io
L’uomo locusta
Impera
Prega
E mangia
L’uomo
Non umano
Saccheggiando vive
Di mercato
Del lavoro
Del bazar
Di una carne
Senza io arriva mostro
Senza
Io
Siete bestie
Non siete umani
Incerto domani
Domani
Chi vivrà vedrà
Morte tua
Vita mia
Vita zombi
Regolare
Regolata dall’assenza
Di logica
Dell’io
Val d’arda
Profumo di terra
E bellezze della natura
Che cedono il posto
Agli scarichi dei camion
Rovina della collina
E dal mostro
Che brucia di tutto
E i sapientoni
Della BUZZI S.p.A.
Lo etichettano
CARBONEXT
Che non si vede e non si sente
E piano piano
Entra in noi
Pensano solo a far soldi
Tanto loro non abitano la valle
Tutti fatti
Non di coca
Ma di cemento
Assicurano
Le comunità
Della Val d'Arda
Che tutto è a posto
Tutto va bene
Per le bandiere blu
Ma a noi non servono
Bandiere blu da sventolare
Vogliamo solo
Aria sana da respirare
Ma come con
Questa gentaglia
A raccontare menzogne
Di legalità
Senza legittimità?
Chi pilota questa banda?
Con politici
A blaterare
E noi tutti inerti
Ad ascoltare
Che il carbone pulito
Quasi quasi ci può stare
E tutto è regolare
Val d’Arda
Ribellati
Fai sentire che ci sei
Per ritornare più bella
E più sana
Perché c’è chi come me
Ti ama
Ancora
Non farti inghiottire
Da deturpazioni
Subite
Nell’arco degli anni
Diamo la possibilità
Almeno
Di vivere sani
E questo CARBONEXT
Lo vadano a fare a casa loro
Mostra i denti Val d'Arda
Fatti rispettare
Dai potenti disumani
Speculatori di questa valle
Ma chissà
Dove si finirà...
Documenti storici dimostrano che il “Guinness World Record” dello sterminio appartiene alla chiesa cattolica. I crimini della chiesa cattolica rappresentano l’ortodossia cattolica e, grazie al consenso dei vari papi coinvolti e di tutti gli ordini ecclesiastici, esistono ancora documenti ufficiali, paradossalmente prodotti dalle stesse autorità ecclesiastiche cattoliche, che forniscono dettagliatissime prove storiche delle stragi compiute in nome di Dio. Per oltre cinque secoli i cattolici hanno imposto il proprio credo con la violenza, eliminando fisicamente ogni oppositore dai territori posti sotto la loro influenza politica.
Ciò nonostante, c’è sempre qualche credulone (ops, credente) che prova ancora ad operare una sorta di “revisionismo storico” per tentare di negare il crudele sterminio di milioni e milioni di persone, bruciate vive. Va detto invece che i misfatti di Hitler e di Stalin, a confronto con quelli dei cattolici, assomigliano alle marachelle di una educanda. Con l’avvento della “Santa inquisizione” sorse perfino qualcosa di più efferato dei roghi: furono i forni, usati da “los quemaderos” di Siviglia (gli incendiatori di Siviglia). I condannati al rogo erano talmente numerosi che i “quemaderos” furono costretti a inventarsi qualcosa di speciale che consumasse meno legna dei tradizionali autodafé: costruirono uno accanto all’altro quattro grandi forni circolari sopra una piattaforma di pietra, ognuno dei quali poteva contenere fino a quaranta condannati. Accendevano un po’ di legna sotto la piattaforma, facevano entrare gli infedeli nei forni e li cuocevano a fuoco lento, così che a costoro occorrevano dalle 20 alle 30 ore per morire. Questi forni funzionarono ininterrottamente per oltre tre secoli: 300 anni. Furono poi chiusi da Napoleone nel 1808. Questo è riuscito a fare la Santa Inquisizione, sublime spettacolo di perfezione sociale (come scrive Adriano Prosperi citando un numero di “La Civiltà Cattolica” del 1853) (http://cristianesimo.it/inquisizione.htm).
L’infernale persecuzione della vergognosa santissima inquisizione cattolica contro i dissidenti, eretici, apostati, streghe, durò cinque o sei secoli: dal 1200 al 1700. L’ultima strega, Caterina Medici fu bruciata viva il 4 marzo 1617: trasportata per Milano su un carro mentre il carnefice la torturava con tenaglie roventi, fu infine impiccata su un palco eretto per l’occasione e quindi bruciata (cfr. il Dizionario biografico Treccani).
Scrive Bacchiega, emerito docente alla Pontificia Università “Marianum” di Roma:
"È difficile stabilire il numero delle vittime perché gli storici moderni adottano una metodica rigorosa: vogliono i fascicoli processuali, le sentenze. Gli archivi, fonti indispensabili, o sono stati distrutti dalla chiesa stessa o dalle rivolte popolari contro gli inquisitori. Il concilio di Albi (1254) aveva stabilito di predisporre copie degli atti processuali e di riporli in luoghi sicuri. Cosicché per calcolare verosimilmente le vittime si dovette a volte ripiegare su metodi induttivi. Dal registro delle sentenze del solo Tribunale di Tolosa nel periodo 1308-1325, essendo inquisitore Bernardo Gui, le sentenze di condanna al rogo furono 636. A Carcasson i consoli della città nel 1285 ordinarono la distruzione dei registri delle sentenze. A Ginevra, nel solo anno 1513 furono accesi 500 roghi. In Germania, i tedeschi all’inizio si opposero con forza ai processi alle streghe, ma dopo la bolla contro le streghe di Innocenzo III e la pubblicazione del “Malleus Maleficarum” (1485) i processi divennero abituali. Per l’Italia si cita la relazione sulle persecuzioni e massacri del 1655 di Enea Balmas e Maria Lana (Ed. Claudiana). Dai dati frammentariamente raccolti induttivamente si parla di milioni di vittime. Hans Kung, noto teologo di successo, calcola circa nove milioni di vittime, più di quelle di Hitler e Stalin assieme” (Mario Bacchiega, “Concilio di Calcedonia (451). Chiesa lacerata e politeista”, Ed. Bastogi, Foggia 2013).
Sono onorato di conoscere come amico virtuale Mario Bacchiega (http://www.bacchiega.it/) in quanto è un uomo coraggioso capace di dire il vero. E sottolineo che sono miei amici solo coloro che sono capaci di vera libertà culturale. È il caso della studiosa Maria Enrica D’Agostini, emerita ordinario di Lingua e Letteratura tedesca presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Parma. Ci siamo conosciuti non solo virtualmente, dato che abitiamo entrambi nello stesso paese, e si occupa anche d’arte.
Anche questa studiosa ha il coraggio della verità e, recentemente alcuni suoi allievi hanno pubblicato un libro su di lei: “Pagine inedite di Maria Enrica D’Agostini e la voce di Elias Canetti”, Ed. Apostrofo, Cremona 2015. Anche in queste pagine si parla del “Malleus Maleficarum” (“martello delle streghe”, il malleus era il maglio per colpire ed abbattere eretici, streghe, liberi studiosi dei testi sacri, ecc.). Nel seguente breve saggio sulle streghe, Enrica D’Agostini non si limita ad accennare ai roghi della “Santa inquisizione” ma riflette sui motivi psicologici e sociologici di tali falò.
Maria Enrica D’Agostini IL FANTASTICO E LE STREGHE Fonte: “Pagine inedite di Maria Enrica D’Agostini
e la voce di Elias Canetti”
A cura di Beatrice Sellinger e Monica Biasiolo
(Ed. Apostrofo, Cremona 2015)
Alla sfera del fantastico appartiene di diritto anche il tema “streghe” forse perché la strega rappresenta un “luogo” fisso dell’immaginario collettivo quale proiezione di istinti profondi e del tutto incontrollabili dell’umano e pertanto non passibile di emarginazione o di demonizzazione.
Si tratta, in effetti, dell’aspetto irrazionale del procedimento del pensiero sociale, basato sostanzialmente sull’elaborazione della realtà non vera ma immaginata: un’elaborazione fantastica che ha bisogno comunque di elementi concreti per essere compresa e accettata. Si tratta quindi di pensieri fantastici che prendono corpo in elementi reali. Il mondo soprannaturale e subnaturale è popolato da fate, spiriti, folletti che acquistano, di volta in volta, forme umane per essere capiti, letti, compresi. Una fata e il suo volo occupano spesso i sogni degli umani. Il confine tra questo soprannaturale e il suo parallelo sotterraneo è assai fragile e impalpabile. Non c’è di mezzo la terra, c è solo il rapido passaggio tra due mondi parimenti non umani: quindi il volo di una fata può anche trasformarsi in un sabba. Tuttavia non si dimentichi che la fata appartiene “d’obbligo” al mondo fantastico e anche a quello della magia bianca. Di conseguenza anche la strega, la sua interfaccia “diabolica”, s’inserisce nel mondo fantastico e continua ancora oggigiorno a raccontare il proprio ruolo agli umani.
La coda dell’abito della fata si trasforma facilmente nella coda di un serpente, di un drago o di una sirena. L’immaginario collettivo, basandosi su documenti storici frammentari, ha costruito una figura divenuta simbolo di diversità che è intrinsecamente anche simbolo di fertilità.
Nel Quattrocento è nata la storia di Melusina scritta da un autore tedesco, ma fondata sostanzialmente su documenti provenienti da tutta Europa, da culture diverse fra loro eppure contemporanee nella loro testimonianza.
Gilbert Durand ha analizzato nel suo libro “Le strutture antropologiche dell’immaginario” (G. Durand, nella sua opera “Le strutture antropologiche dell’immaginario”, tr. it. di E. Catalano, Dedalo, Bari, 1984, analizza I’ìmmaginario, i suoi archetipi e simboli ed indaga pure l’etimo di Melusina nella prospettiva della dea madre) l’immaginario, i suoi archetipi e simboli e afferma: “Il serpente è uno dei imboli più importanti dell’immaginazione umana [...]. La mitologia universale avvalora la tenacia e la polivalenza del simbolismo ofidio” (ivi p. 317). Lo studioso indaga l’etimo di Melusina nella prospettiva della dea madre e sancisce il principio che “si ritrova in Melusina, come nella Mermaid ingle e o nella Merewin dei ‘Nibelungen’, che la femminilità e la linguistica dell’acqua sono una cosa sola nella denominazione della Marfaye primordiale” (ivi p. 228). Durand spiega altresì l’elemento maschile e femminile in essa contenuti: “Nella tradizione occidentale moderna che illustra la dottrina alchimistica, è la Madre Lousine abitante delle acque il nome proprio dell’aquaster degli alchimisti. [...] L’immagine della Madre Lousine sarebbe dunque una proiezione dell’inconscio abissale, indifferenziato, originale, tinto, nella dottrina junghiana, dalla femminilità propria dell’anima maschile” (ibidem). Melusina resta un segno di prosperità e di fecondità (per la bibliografia sulla Grande Madre e sull’archetipo si rinvia a M. E. D’Agostini “Acqua, terra, aria, nel segno del serpente e del cigno”, sta in AA.VV., “Luoghi e figure della trasformazione: Favole zoomorfe nella letteratura inglese e tedesca dal Medioevo al Seicento”, Guerini c Associali, Milano, 1992, p. 21). Se è vero dunque che la fantasia si alimenta di presenze reali e reiterate della collettività, peraltro mai confessate, è vero anche che tali presenze subiscono elaborazioni private e segrete che tuttavia emergono insieme dall’immaginario collettivo: questa è la conferma che ogni immaginazione appartiene a un archetipo ben solido in noi e che la società che lo alimenta può arrivare storicamente a un punto in cui decide di distruggerlo. La figura della fata madre e regina protettrice rappresenta (in Francia) il nucleo sociale e, allo stesso tempo, è il simbolo di una profonda diversità; è proprio su questa diversità, che la connota, che si impernia l’impulso distruttivo da parte del potere costituito. Mentre nel 1456 veniva pubblicata la storia di Melusina, fata fondatrice della casata reale dei Lusignano, primi re di Francia, i frati domenicani Institor e Sprenger circa trent’anni dopo cercavano di convincere il mondo cresciuto intorno a loro, che l’eretico era il colpevole di ogni danno climatico, economico, fisico della società e perciò andava scoperto e reso impotente. Essi godevano anche della fiducia di Papa Innocenzo VIII che li aveva incaricati, con la bolla papale “Summis desiderantes affectibus”, di cercare, di individuare, incarcerare e punire le persone infette dal crimine della perversione eretica”, ossia di svolgere solennemente in Germania il ministero dell’Inquisizione. A questa bolla papale si ispirano non solo i due domenicani Institor e Sprenger per scrivere il loro “Malleus Maleficarum” (la prima edizione del “Malleus” uscì nel 1486·87 a Strasburgo. La seconda fu invece edita a Spira nell’aprile del 1487. Si registrano ben 34 edizioni fino al 1669 che interessano le città di Lione, Venezia, Parigi, Norimberga, Francoforte, Colonia: l’opera raggiunge la ragguardevole tiratura di 39.000 copie), ma anche J. Bodin e persino cent’anni dopo Giacomo I Stuart, futuro re d’Inghilterra, che nel 1597 scrisse la famosa “Demonologia” (“Il libro delle streghe”), avvalorando la tesi di una maggiore severità necessaria, nei processi alle streghe, per estirpare dalla radice il male e Satana. I grandi roghi della storia, accesi già sporadicamente nel Quattrocento ma divenuti familiari nel Cinquecento, nel Seicento, nel Settecento, si spengono nella seconda metà dell’Ottocento quando il principio motore della caccia al “diverso” assume altre dimensioni (tecnologiche e psichiche) e trova altri sistemi di tortura e di prevaricazione per cancellare l’essere umano nella sua giusta e doverosa diversità e omologarlo. Dunque i roghi sono ahimé ancora accesi ma non riusciamo a vederli: sono ammantati di leggi, di giustizia, di benessere.
Il Cinquecento è un secolo notoriamente denso di cultura e di scienza. A parte l’Italia in cui fiorisce la grande stagione del Rinascimento, se osserviamo attentamente l’Europa ci accorgiamo che essa è percorsa, a diverse latitudini da uno straordinario attivismo in molti campi del sapere e delle scoperte geografiche e scientifiche. La Spagna e con essa il Portogallo sono coinvolte nella libido di potere generata sul finire del Quattrocento dalle scoperte di Cristoforo Colombo, i Paesi Bassi e gran parte della Germania si preparano ad applaudire il genio liberaI-democratico e scientifico di Erasmo da Rotterdam, la Francia omaggia il grande Rabelais e guarda con ammirazione l’evoluzione della scienza di Nostradamus; l’Europa sta per accettare definitivamente la rivoluzione copernicana, l’Inghilterra rinasce all’insegna di Cristopher Marlowe e Tommaso Moro, e persino la parte orientale dell’Europa gode l’estremo vantaggio della politica asburgica ereditata da Carlo V.
Eppure l’apertura culturale e scientifica in atto viene costantemente negata dal potere della Chiesa di Roma che di fronte a questo rifulgere di opere, di arti e di scoperte, reagisce con estrema decisione, istituendo ufficialmente il tribunale della Santa Inquisizione preposto a mettere in pratica i dettami della bolla papale di Innocenzo VIII “Summis desiderantes affectibus” promulgata nel 1484. A questo punto ci si chiede come sia stato possibile che nel secolo più fiorente in fatto di scienza, cultura e arte, sia nato un fenomeno così intriso di superstizione, lontano dalla carità cristiana o da qualsiasi altra confessione, tale da creare una vera e propria persecuzione, definita “olocausto” sotterraneo e segreto di innocenti, vecchie, giovani, donne, uomini (in misura ridotta), bambini?
La pubblicazione del “Malleus” da’ ufficialmente inizio ai roghi, già accesi sporadicamente qui e là in Francia e Germania, precede di pochi anni la rivoluzionaria scoperta del Nuovo Mondo (1492) e la pubblicazione della “Nave dei folli” (“Stultifera Navis”) di Sebastian Brandt (1494), nonché la cacciata degli ebrei dalla Spagna (1492) che segna l’inizio di una nuova ondata di persecuzioni verso i “diversi di religione”.
Si può facilmente osservare che la persecuzione delle streghe e degli ebrei si è evoluta parallelamente quasi fino al Novecento: infatti la caccia all’eretico si acquieta soltanto nella seconda metà dell’Ottocento. A Passau l’ultimo processo per stregoneria termina nel 1873. La vicenda ebraica, ancora oggi non è affatto sedata. La persecuzione in sé denota una componente malata della società e la reazione di quest’ultima a un periodo di crisi; le scoperte scientifiche, mediche e artistiche della fine del Quattrocento e del Cinquecento indicano invece la parte sana della società che continua a progredire nella conoscenza. Che entrambe le componenti possano convivere e silupparsi contemporaneamente è un fatto storico incontestabile. La crescita paurosa dei roghi nel Cinquecento e nel Seicento, i due secoli per eccellenza connotati da scoperte scientifiche e dall’opera dei grandi geni dell’arte, dimostra qualcosa forse di insospettabile. Progresso scientifico e superstizione convivono e anzi, più si irrobustisce l’uno tanto più violenta diventa l’altra. Le facce opposte, contrastanti di tale evoluzione si sono evidenziate apertamente nel Novecento (Einstein-olocausto-caduta di imperi-persecuzione a tutti i livelli).
La fata e la strega sono due creazioni dell’immaginario collettivo che le colloca entrambe comunque nel mondo e nel ruolo della diversità, sia essa santa e celestiale o satanica e diabolica. Esse, tuttavia, sono più diverse della normale diversità dell’uomo.
Il pensiero, dunque, di un’intera società le ascrive entrambe a un mondo ben definito, recintato, a un luogo dai confini ben precisi e circoscritti: la diversità è normalmente sconosciuta arreca ansia, paura, terrore, alimenta la fantasia più sfrenata e va assolutamente contenuta entro confini ben precisi per poterla meglio osservare e forse anche controllare. All’angoscia che zampilla dall’ignoto, l’uomo reagisce con una forma di difesa qualsiasi, a volte incontrollata, e che può trasformarsi addirittura in offesa, in violenza verso tutto ciò che si ignora, verso le ombre che scaturiscono spontanee dal buio della non conoscenza. Nasce quindi l’esigenza di “recintare” la diversità che di fatto viene considerata come una menomazione e, in seguito, di sopprimere e cancellare ciò che è stato recintato. Fu così che nacquero la figura dell’eretico, la sua caccia, la necessità di sopprimerlo. L’eretico, inteso come parte satanica e diabolica del divino, s’incarna nella figura della strega, mentre la componente spirituale, celestiale ha come valida interprete la fata. Infatti la fata, in quanto “essere diverso”, non può essere seguita ed emarginata, è sempre invisibile e impalpabile.
Soffermandomi sulla figura della strega, merita di essere analizzata l’etimologia del termine ‘strega’ che ha un’origine assai varia nelle diverse lingue europee. In italiano è collegabile al latino “strix” (la strige o barbagianni, uccello notturno del malaugurio); in francese “sorcière” derivante dal latino “sortilega”, che indicava colei che traeva le “sortes”, ossia una divinatrice; in inglese “witch” discende da “wit” o “wicca” (saggia) derivante a sua volta dall’antico germanico “wizago”. In tedesco “Hexe” deriva dal vocabolo “hagzissa”, “hagazussa” (antico alto tedesco) e “hecse”, “hesse” (medio alto tedesco) e al pari di “witch” conserva nel suo etimo un significato sapienziale.
L’esistenza dell’antico termine “zaun” (recinto) da’ origine ad “hagazussa” (spirito dei boschi), da cui si fa derivare “Hexe” (strega), destinato a rappresentare il ‘luogo per eccellenza del diverso’ dal Medioevo ad oggi. La radice “hag” di “hagazussa” si può collegare a “zunrita” (a “Zaunreiterin”, ossia a colei che scavalca il recinto), pertanto la “Hexe” rappresenta sia la diversità che il continuo superamento della diversità. Osservata nelle diverse lingue, dal latino al francese, italiano, spagnolo, inglese e tedesco, la parola strega non ha un andamento unilaterale. Per alcuni significa “malefica”, per altri “donna saggia”, per altri “esperta di erbe”, per altri ancora “colei che predice” o “che vede lontano” (veggente). Facendo una proporzione gli attributi di malefica e venefica sono una vera minoranza. Predomina infatti il significato di “colei che scavalca o cavalca il recinto o la siepe” e il significato positivo di donna saggia, guaritrice consigliera.
Occorre aggiungere, a questo punto, in riferimento al ruolo di “Zaunreiterin” attribuito alla strega, che il confine, il limite, la soglia, sono necessari, anzi indispensabili poiché senza di loro non esisterebbe il contrario: il confine determina l’urgenza dello sconfinamento, che in sé e per sé è cambiamento, tra formazione e rinnovamento. Guardare oltre il confine significa riuscire a vedere e distinguere la differenza, valicarlo equivale di norma a vivere diversamente l’identità, vivere la differenza così come tracciarlo implica la possibilità di violarlo. La differenza è imprescindibile, senza di essa il mondo si appiattisce, annulla la propria identità. Il cancro odierno è la spinta verso l’omogeneo globale. Se ciò accadesse, il mondo si annullerebbe nel ‘tutto uguale a sé’. La differenza è necessaria ma implica sempre una tensione, un rapporto di confronto, uscire, entrare, violare, spostare il confine di un altro (cfr. G. Marramao, analizza a fondo questo concetto in “La cifra della differenza”, in “Aperture”, 2, Roma, 1997. In proposito si veda inoltre l’illuminante contributo di E. Castelli Gattinara, “Il coraggio del limite” apparso nella stessa rivista). La guerra ha queste origini. La pace si mantiene nel rispetto del confine. La disputa moderna generata dal confine si è realizzata in prima istanza con il reiterato superamento da parte delle avanguardie del confine e della soglia e in seconda istanza come creazione letteraria e linguistica di un terzo luogo, rispetto a quello dentro e fuori dal confine e al di qua e al di là del limite o soglia, quello cioè dell’iper-luogo dove è consentito ogni tipo di realtà nuova, in letteratura quello dell’iper-testo (l’ipertesto è quel mostro letterario, nel senso latino di “prodigio”, che consente di creare una cosa senza confini, pur mantenendo l’etica narrativa, o anche di evocare, per fare un esempio nell’ambito linguistico, l’immagine di una persona senza la delimitazione dei confini del suo corpo; come i confini di uno stato segnano il principio e la fine, così i contorni della figura indicano i margini, la forma e la geometria del corpo; queste linee possono essere ritenute immaginarie o convenzionali e rendere quindi necessaria la denuncia della loro stereotipizzazione, come avviene nell’opera di Elias Canelli “Il testimone auricolare”), dove è possibile tra formare il linguaggio e creare anche la trans-lingualità, fenomeno immediato di trans-ferimento di una lingua a un’altra (si intende non soltanto la traduzione, ma anche l’utilizzo di tre/quattro lingue diverse nello stesso segmento testuale; ricordo emblematicamente le operazioni translinguistiche nelle opere del poeta nazionale austriaco H. C. Artmann, esponente di spicco della neoavanguardia degli anni Sessanta).
La fata o la strega hanno quindi questo solido compito da espletare. Esse rappresentano una forma di diversità che costringe al rinnovamento e la Chiesa, a lungo, ha preferito la strada della radicalizzazione della tradizione.
È la stessa cosa che accade al mondo della natura vista nelle sue diverse dimensioni, entro cui Michael Ende (1929-1995, rimane uno dei più famosi e più letti autori del mondo. Tradotto in 40 lingue straniere, subisce tuttavia un destino controverso; viene infatti ritenuto dalla maggioranza della critica un autore di libri per ragazzi; attraverso le storie di ragazzi e bambini Ende trasmette un forte e chiaro messaggio culturale e linguistico) colloca una fiaba in otto quadri, scritta in dialetto bavarese (1984) e costruita intorno alla leggenda antica del coboldo chiamato Goggolori (M. Ende, “Der Goggolori, Eine bairische Mär”, Edition Weitbrecht, Stuttgart, 1984; non esiste ancora una traduzione italiana dell’opera). La storia rimane tesa tra due mondi, quello umano e degli spiriti, quello cristiano e pagano; si tratta di una storia d’amore contrastato, che coinvolge Aberwin, Zeipoth e il Goggolori, calata all’inizio del Seicento, quando sta per scoppiare la Guerra dei Trent’anni. Si tratta di un periodo estremamente attivo per l’Inquisizione, impegnata a stanare l’eresia in ogni luogo dell’Europa e ad accendere roghi per purificare il mondo dalla strega. E quindi la storia è anche costruita sulla tensione tra la normalità e la diversità. La figura della strega “hagazussa”, la “Zaunreiterin”, colei che cavalca il recinto o meglio lo scavalca, assume il valore emblematico del reiterato cambiamento. Tutti i limiti vengono superati e scavalcati. Non esiste una fine al ripetersi dell’“andare oltre” e ogni stereotipo viene ribaltato: il coboldo malvagio, la vergine quattordicenne, la strega malefica, l’innamorato Aberwin e persino l’eremita. Scavalcare il recinto, come fa “hagazussa” disturba i ruoli, scoordina il sistema, rende capaci di osare, trasforma, arricchisce.
Il fenomeno sociale della strega implica di per sé tre aspetti che non devono essere trascurati. La strega equivale infatti a ‘menomazione’, a ‘diversità’ e a ‘trasformazione’.
Sono tre ragioni valide per rispettarla e aiutarla ma anche tre ragioni valide per scatenare la persecuzione nei suoi confronti. La ‘menomazione’ è strettamente collegata alla diversità, esige una circoscrizione del danno. Ecco spiegato il recinto, la siepe, lo “Zaun”. Quindi da “hagazussa” deriva “Hexe” che di fatto indica colei che trova la forza di scavalcare il recinto in cui venivano catalogate ed emarginate le streghe. Il recinto circonda ed isola la menomata. La creazione della strega sgorga dal profondo dell’immaginazione popolare, o comunque di un pubblico vastissimo, incolto o colto, che abita città, villaggi, piccoli borghi sperduti.
La strega rappresenta nell’immaginario popolare colei o (qualche volta) colui che ha un rapporto stretto con Satana che consente alla succuba o al succubo di trasformarsi in qualsiasi cosa essa/o desideri, oltre che di tramutare qualsiasi cosa o uomo in altro da sé oltre che fare magie e sortilegi. La strega è soggetto di metamorfosi costante, ed è proprio questa mancanza di fissità di forma e di ruolo (e non quello di diabolica, perfida, malvagia) la sua unica caratteristica costante e certa. L’unica certezza è, dunque, l’incognita della sua provenienza, delle sue forme umane, della sua attività, del suo ruolo. Questo la rende pertanto assolutamente diversa da tutto il nucleo sociale in cui vive ed è inserita; anche se spesso questa diversità è ben vista dalle donne che traggono il massimo vantaggio dai suoi interventi, e sarà proprio a causa di tale diversità che verrà gettata sul rogo. La sua intelligenza ed esperienza non sono qualità ma menomazioni. Possedere le doti che sostituiscono l’operato di un medico o di un uomo di chiesa ed usarle, anche e soprattutto per il 99 dei casi a beneficio dell’umanità circostante, è grave abuso e bolla a fuoco e per sempre chi le possiede. È una ‘diversità menomante’ dichiarare di aver procurato guarigioni, serenità, salute, prosperità a una o più persone; è una grave alterazione dell’equilibrio della natura. Questi miracoli sono soltanto di Dio o di Satana. E certamente non è di Dio la donna che osa contravvenire ai dettami della Chiesa, che di norma le proibisce di conoscere il latino, le erbe medicinali, le leggi delle stelle, le dottrine evangeliche, le regole della matematica o i principi rudimentali della chimica e della fisica, dell’astrologia. Questa donna, ricca o povera che sia, è di Satana. E a lui deve tornare con la tortura, oppure deve essergli sottratta attraverso le fiamme del rogo (“Scheiterhaufen”).
La ‘diversità’ è quindi ‘menomazione’. Questo principio viene stabilito non dalla Santa Inquisizione ma dal contesto che vuole ignorante il 90% del mondo, quello che per censo, per posizione politica o economica, non appartiene all’aristocrazia, all’accademia, né tanto meno alle gerarchie ecclesiastiche.
Si pensi in proposito allo stolto del villaggio, al “Narr”, allo “Schelm” (Till Eulenspiegel) al deficiente caricato sulla nave e spedito lontano dal villaggio (Foucault). Egli porta con sé un’evidente menomazione, considerata identica a quella di colui che usa l’intelletto per conoscere, scoprire, imparare al di là dei limiti che gli vengono imposti dai poteri civili ed ecclesiastici. Il secolo apparentemente più liberale e democratico, e probabilmente quello più colto del secondo Millennio, il Cinquecento, è purtroppo il secolo della cultura elitaria, mascherata e paludata.
Un altro tratto peculiare della strega è la sua capacità di ‘trasformarsi’- Questo è attributo dell’essere soprannaturale, non di quello umano. Si comincia con la trasformazione dell’uomo in animale in ambito pagano (mitologia greco-romana) e si continua con la storiografia medievale popolata di elfi, gnomi, fate, esseri subnaturali e soprannaturali per approdare infine a Paracelso (1493-1541). Questi, nella sua opera “Paragrano” e in particolare nel “Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandri et de caeteris spiritibus” (1566), rappresenta gli “arcana”, come anima della natura, che accompagnano l’uomo e le sue vicende, posizionati in un mondo ambiguamente cristiano/pagano, senza una precisa qualificazione, e comunque sempre in sospeso tra cielo e terra o tra cielo e sub-terra, dove sub-terra non è quasi mai definita inferno e sovrannaturale non è celestiale o divino. In questo limbo le forze sub-sovrannaturali non appartengono al divino, né al diabolico, si tratta di componenti della natura, di energie direttamente collegate all’uomo, a lui sinergiche e non concorrenziali (ad esempio le fate possono più delle donne oppure le streghe hanno poteri sovrumani), spesso, quasi sempre di aiuto all’uomo: la natura è benigna, ovvero è in equilibrio con le forze sub-naturali e sovrannaturali.
Anche la fede è una forza della natura, potenziale divino nell’uomo, sua forza e timolo, sua struttura immortale, sua apirazione. L’immaginario medievale concepisce l’intervento delle forze sub-sovrannaturali come compensazione e aiuto, non come lacerazione e oscura trama diabolica.
Dunque è concepibile nella storiografia medievale la nascita di un grande casato francese la nascita della sua regina dalla vicenda reale-fantastica della fata Melusina, che scegliendo di sposare un mortale e di dargli una numerosa progenie, paga il suo passaggio alla mortalità menomandosi e trasformandosi: essa si tramuterà infatti ogni sabato in donna serpente/donna drago (si rimanda a questo riguardo a AA.VV., “Luoghi e figure della trasformazione. Favole zoomorfe nella letteratura inglese e tedesca dal Medioevo al Seicento”, cit. pp. 13-72). Il segno del mostro, quello della reiterata menomazione, sta nella trasformazione coatta, che non è mai definita tuttavia diabolica. Melusina traghetta la sua storia dal Duecento al Novecento e oltre.
La storia della sirena e della donna serpente che vede la luce ufficialmente con la “Melusine” di Thüuring von Ringoltingen, nel 1456, continua a destare scalpore come “Volksbuch”. La protagonista viene definita strega, anche se si tratta di una fata, e Paracelso è il primo che la solleva da questo pesante giogo riconsegnandola alla sua storia: quella di un essere soprannaturale che accetta una menomazione (cfr. ibidem) (la trasformazione in pesce/serpente una volta la settimana) pur di partecipare al grande rito dell’umanità, il matrimonio con Raimondino, un mortale che dal nulla diventerà re della stirpe dei Lusignano, e il parto di ben dieci figli. Agli inizi del Cinquecento Mariken di Nimega (si veda l’opera “Mariken di Nimega”, 1520 circa, di anonimo fiammingo) è al centro della storia di un patto per la conoscenza, tra un essere umano e un essere soprannaturale, il diavolo in questo caso, e anticipa sorprendentemente la celebre “Storia di Faust” di J. Spiess (1587), collegando comunque le due versioni della diversità che stanno per emergere dall’appartenenza medievale alla stessa problematica del resto messa ben in rilievo da Paracelso nella sua opera “Paragrano” (circa 1531). Qui il celebre medico, alchimista e astrologo svizzero lascia trasparire come dal mondo della natura, compatto e suddivisibile in tre settori (sovranatura, natura e sub natura), emergano due alienazioni, entrambe legate alla ricerca scientifica, quella della strega e del mago, che scelgono la strada “altra’ dalla ortodossia per sete di conoscenza, e quella della duplicità che si evolve all’insegna della trasformazione coatta come simbolo di regalità che viene dalle radici del popolo in congiunzione con le forze soprannaturali. Col passare dei secoli anche la strega i trasforma: nella stagione classico-romantica diviene Ondina, Sirena, il doppio e in tutto il Novecento da Kafka in poi una figura dalla forte connotazione simbolica (si citano a questo proposito “Die neue Melusine” nei “Wilhelm Meisters Lehrjahre” di Goethe, “Undine” di La Morte-Fouqué. “Peter Schlemihls wundersame Geschichte” di Chamisso, “Die Elixiere des Teufels” e “Das Fräulein von Scudery” di E.T.A. Hoffmann, “Loreley” di Heine. In area novecentesca si segnalano “Das Schweigen der Sirenen” di F. Kafka, “Kindheit de Zauberers” e “Traumfährte” di Hermann Hesse, “Undine geht” di Ingeborg Bachmann, “Die Mystifikationen der Sophie Silber” e “Hexenherz” di Barbara Frischmuth, “Leben und Abenteuer der Trobadora Beatriz nach Zeugnissen ihrer Spielfrau Laura e Amanda. Ein Hexenroman” di lrmtraud Morgner, “Sonderbare Begegnungen” di Anna Seghers, “Hallo, Schöne” di Gabriele Wohmann, “Unter den Linden” e “Selbstversuch, Trakrat zu einem Protokoll” di Christa Wolf, “Anna Göldin” di Eveline Hasler, “Die Tochter des Bürgermeisters” di Steven Ozment, “Krabat oder Die Bewahrung der Welt” di Jurij Brezan, “Die Tochter des Salzsieders” di Ulrike Schweikert, “Hexen in der Stadt” di Ingeborg Engelhart).
Chi difende il mondo della sovranatura e della sub-natura nel tentativo di integrazione con la natura, viene demonizzato diventa un capro espiatorio (la caccia alle streghe come fatto storico esiste. L’Inquisizione ha lavorato con puntiglio e sistematicamente ha “eliminato” in duecento anni più di nove milioni e mezzo di persone, di cui 1’85% donne, la maggior parte giovani, ricche, scomode perché non si piegavano ai dettami della tradizione. Le erbarie e le levatrici perseguitate, erano anziane, discrete e di buona fede cristiana; qualcuna di loro si è salvata dalla tortura ma non è più stata normale. Questa strage, che qualcuno ha chiamato olocausto, ha coinvolto l’intera Europa. Il fenomeno è stato analizzato con molta intelligenza da René Girard nel suo “Le bouc èmissaire” (edito a Parigi nel 1982 e uscito in traduzione italiana da Adelphi nel 1987 con il titolo “Il capro espiatorio”) dove considera le varie forme di persecuzione scelte dall’uomo a danno di un proprio simile (gli animali e la natura non conoscono il concetto) e inizia enumerando e descrivendo gli stereotipi alla base di questo fenomeno. “Mi occuperò soltanto delle persecuzioni collettive o con risonanze collettive. Per persecuzioni collettive intendo le violenze commesse direttamente da folle omicide, come il massacro degli Ebrei durante la peste nera del Trecento (e oltre, fino a oggi). Per persecuzioni con risonanze collettive intendo violenze come la caccia alle streghe, legali nelle loro forme ma generalmente incoraggiate da un’opinione pubblica sovraeccitata (spesso isterismo collettivo)” (p. 29). Lo studioso analizza poi la crescita dello stereotipo che induce la collettività alla persecuzione e individua le tre principali fonti dalle quali emergono le ragioni che “creano” la vittima: ragioni culturali, religiose e fisiche (ogni sorta di handicap, deformità genetiche, mutilazioni accidentali e persino malattie in generale o la follia) polarizzano l’attenzione dei persecutori. L’attenzione poi diventa abitudine e una volta individuato il soggetto da discriminare ecco il gioco è fatto: nasce il capro espiatorio) (in quanto l’integrazione non avviene mai del tutto e resta il segno della diversità menomante) e subisce ogni sorta di disprezzo e di persecuzione fisica e morale (stolto/folle, ebreo/strega, uomo del libero arbitrio/Faust). La strega risale quindi ai tempi della disperazione della Chiesa e la strega è il suo delitto (Friedrich von Spee fu il gesuita e l’inquisitore che denunciò la pregiudizievole procedura giudiziaria seguita dall’Inquisizione nei processi contro le streghe. Con l’opera “Cautio criminalis” (1631) uscita anonima, per ragioni di sicurezza, l’autore minò le basi della caccia alle streghe, denunciandone gli abusi giuridici ed etici e le atrocità. La Chiesa spegne la natura, a maggior ragione deve reprimere la strega, indagatrice empirica dei tesori che la natura offre, da lei poi utilizzati per curare e guarire l’umanità; la “strega” agisce fuori dai “confini”, scavalca i “limiti” posti dalle logiche e dagli interessi del potere costituito.
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Il grassetto iniziale e quello di questa nota conclusiva sono miei. Il dato di “nove milioni di vittime” di Hans Kung (cfr. Mario Bacchiega “Concilio di Calcedonia…”, op. cit.) ed il dato di “nove milioni e mezzo di persone, di cui 1’85% donne” di Maria Enrica D’Agostini (“Il fantastico e le streghe” in “Pagine inedite di Maria Enrica D’Agostini e la voce di Elias Canetti”, op. cit.) indicano dunque che il “Guinness World Record” dello sterminio appartiene non ad Hitler o a Stalin ma alla chiesa cattolica.
Nereo Villa, partigiano del presente,
Castell’Arquato, 9 maggio 2015
Non esiste alcuna strada dei miracoli. Se esistesse, lo spirito che li compie non sarebbe lo spirito. Affinché vi sia lo spirito, occorre ogni giorno allo spirito ciò che lo giustifichi come tale, cioè se stesso. Quando questo venga meno, lo spirito può sussistere solo in quanto qualcosa che non è lo spirito ne prende il posto, tuttavia continuando a operare come fosse lo spirito. Anzi, allora appunto opera con la sicurezza propria a tutto ciò che si fonda sulla propria esteriore parvenza. Il discorso da fare per convincersene è molto semplice: se per manifestarsi lo spirito ha bisogno della materia significa che è uno spirito condizionato dalla materia. Ma uno spirito condizionato dalla materia è uno spirito spurio, dato che lo spirito non può che essere immateriale. Ecco perché la via o la strada dei miracoli secondo la quale lo spirito avrebbe bisogno di statue di gesso per piangere lacrime di sangue o di altre simili amenità, per esempio quella di organismi umani quasi putrescenti che lo spirito farebbe ritornare a vivere completamente sani, tutto ciò è sempre opera di uno spirito subordinato alla materia, che per manifestarsi ha bisogno di sedie a rotelle, stampelle, statue che piangono, e così via.
Tutto ciò è dunque opera di sostanze materiali, dato che la sostanza dello spirito è pura forma continuamente mutante (come il vento, se si vuole proprio fare un esempio materiale).
Distinguendo fra materia e sostanza, dovrebbe apparire chiaro anche all’essere umano più credulone che non esistono “strade dei miracoli” da percorrere.
Sostanza significa letteralmente ciò che è “sotto-stante”. In tal mondo il contenuto concettuale di sostanza è inteso in senso concreto come tutto quanto sta sotto la forma, vale a dire: ciò che in modo sostanziale costituisce la forma stessa. La forma non può esistere senza un supporto e questo è appunto la sostanza.
Dai tempi antichi, forma e sostanza furono concetti non sempre intesi nel medesimo senso.
Non c’è alcun dubbio che entrambe, forma e sostanza, nascano nel processo vivente individuale della pianta, dell’animale e dell’uomo. Come la forma è individuale, così lo è anche la sostanza.
Non si deve cadere in errore pensando che in fondo tutto consiste di idrogeno, ossigeno ecc., e cioè di elementi chimici uguali. Ogni sostanzialità è invece esclusivamente tipica di un dato essere vivente, ad esempio la sostanzialità del mughetto presente solo nel mughetto, o la sostanzialità della gallina presente solo nella gallina.
Nell’uomo ciascun individuo ha la propria sostanza ben distinta da quella degli altri. E questa è la grande difficoltà nei trapianti di organi, dato che ciascun individuo umano ha la PROPRIA proteina.
Nel mondo organico, forma e sostanza sorgono sempre insieme, non sono separabili.
Nel mondo inorganico si possono invece separare: una moneta può essere coniata in argento, in oro o in cioccolato.
La constatazione che la forma e la sostanza negli esseri viventi sono inscindibili ha condotto nella chimica moderna alla divisione in chimica organica e chimica inorganica.
Si era dell’opinione che certe sostanze potessero essere generate solo da un essere vivente nel contesto di processi viventi. Nel 1827 Friedrich Wähler sintetizzò però per la prima volta una sostanza organica. Fu un evento che ebbe molte conseguenze. Oggi la chimica ha imparato a produrre sinteticamente la maggior pane delle sostanze presenti negli esseri viventi, ed anche a produrre sostanze nuove, estranee sia alla natura organica, sia a quella inorganica.
Osservando le forze formatrici e le attività vitali ci si può accorgere della differenza fra le forze generiche delle foglie, e quelle per esempio dei fluidi nella foglia di una rosa o di un giglio, o di un’ortica, o in una trota, o nell’uomo.
Alle forze formatrici generiche si devono pertanto aggiungere le forze formatrici delle varie specie. Solo allora sorge una conformazione esistente in natura. In questa conformazione esistono solo piante specifiche e animali specifici. Nel genere umano ogni uomo ha le qualità di una specie: ciascuno è una specie a sé.
D’altra parte, nemmeno nel mondo inorganico ci sono sostanze generiche ma sempre sostanze determinate, e questa è dunque la differenza tra sostanza e materia. Nell’inorganico la sostanza è sempre qualcosa che ha qualità e proprietà che sono specifiche e inconfondibili. Rame, arsenico, azoto, sono ciascuno delle specie a sé, come il mughetto o il ciclamino nell’ambito del vegetale. Le sostanze dell’inorganico sono i cosiddetti elementi chimici.
Cos’è la materia? È la designazione della sostanza senza alcuna qualità. La materia è sostanzialità in sé. Però anche la materia deve avere una qualità, altrimenti non potrebbe essere una componente del mondo sensibile. La qualità della materia è la spazialità. Materia è tutto ciò che colma lo spazio. Questa proprietà non ha maggiore significato del colore bianco nel mughetto o del peso di una gallina.
In nessun caso la materia è qualcosa di immutabile e di esistente in sé. Si può dire che la materia, come riempimento dello spazio è una proprietà di tutte le sostanze, ma solo una proprietà: nessun fondamento. Non c’è materia in sé come qualcosa in sé esistente.
La teoria della scienza moderna, secondo cui la materia sarebbe il fondamento del mondo sensibile si basa sulla pura concezione materialistica, conseguente a un difetto di pensiero e di un’osservazione che non sa cogliere tutti i fenomeni.
Allo stesso modo non c’è materia spirituale, né spirito materiale. Anche questi concetti sono spuri in quanto si basano su pura concezione materialistica. Ecco dunque perché si diceva che tutto quanto nasce dalla carne è carne, mentre tutto quanto nasce dallo spirito è spirito (Gv 3.6).
Il miracolo, secondo il quale lo spirito chiederebbe alla carne o alla materia di apparire, è una menzogna che contraddice questa antica conoscenza che differenzia lo spirituale dal materiale.
L’unico miracolo credibile è la vita stessa, come mondo delle forme sempre mutanti dell’io umano. L’unica via è, appunto, quella dell’io (Gv 14,6).
La transustanziazione di quanto si mangia e si beve non è altro che il risultato del processo spirituale dell’io quando la metamorfosi delle sostanze le assimila a noi, cioè alla nostra propria forma individuale.
L’uomo primitivo pretende, accanto alla testimonianza concettuale fornitagli dal pensare, anche quella dei sensi perché la sente più reale: “In questo bisogno dell’uomo primitivo sta la ragione del sorgere delle più elementari forme di una fede rivelata. Il Dio datoci per via del pensare, rimane per la coscienza ingenua soltanto un Dio pensato; questa coscienza primitiva richiede che la rivelazione le venga data con mezzi accessibili alla percezione dei sensi. Il Dio deve apparire corporeo; si da’ poco valore alla testimonianza del pensare, ma si chiede che la divinità si dimostri per mezzo della trasmutazione - constatabile dai sensi - dell’acqua in vino” (Rudolf Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 7°).
Ma la trasformazione dell’acqua in vino è possibile ad ogni io capace di spirito. L’uomo spiritoso in quanto beone è “fatto” dallo spirito del vino, non dallo spirito di se stesso. L’uomo minimamente evoluto comprende questo “miracolo”. L’uomo primitivo non può comprenderlo, perché è ancora legato alla percezione materiale, cioè alla credenza secondo la quale gli oggetti dell’esperienza esteriore sono l’unica realtà. Ha bisogno dell’ostia nella pancia per sentirsi spirituale. Ecco perché ha così bisogno di credere che una statua di gesso pianga lacrime di sangue, non accorgendosi che questa è la misura della propria materialistica alienazione essenziale.
Si parla della sindone, o delle lacrimazione di statue o di guarigioni di organi, ecc., per non parlare dell’io, della sua via, della sua verità e della sua vita, perché in fondo si crede nella mistica e nei misteri… della materia…
Nel terzo millennio, il problema dell’uomo è di superare ciò che si decreta come umano pur essendo subumano in quanto alienantesi nel veicolo fisico: la presenza delle forze più elevate dell’io oggi si manifesta in una forma inferiore, che si rischia di consacrare come normale.
Insomma, l’io non nasce dal corpo ma dall’io, cioè da se stesso, così come la farfalla dalla “crisalide”. “Crisalide” e Cristo” sono foneticamente imparentati: il “Cristo” era un termine tecnico che esprimeva questa nascita dall’io da se stesso pur trascendendo se stesso ad un piano più alto, simile a quello che in musica esprime la stessa nota ma ad un gradino più alto, detto “ottava”. Ecco perché anticamente il giorno di risurrezione era detto “l’ottavo giorno”. Ed ecco anche perché la dimensione dell’io è la trascendenza: la trascendenza è la dimensione dello spirito.
Quando la trascendenza è sentita corporalmente, cioè coi sensi ordinari, è un non senso. Infatti il suo essere sentita corporalmente è una contraddizione ontologica. In quanto contraddizione ontologica è simile a quella falsa liberazione data dal coito materiale o da un godimento, la cui corporeità, nella sua saggezza di base, tende rapidamente a liberarsi, malgrado la brama che crede poter consistere in tale contraddizione. In realtà non ci si libera ma ci si lega sempre più alla percezione sensibile, a scapito di quella dell’io, sovrasensibile, cioè spirituale.
Se l’uomo non si rinnova rimane nell’antico, diventando anacronistico e perciò antisociale.
In verità, il trapasso dall’uomo antico al nuovo, pur obbedendo a una direzione metafisica, si è compiuto secondo impulsi mentali esprimenti una rivolta antimetafisica. In questa rivolta, l’autocoscienza si è necessariamente posta contro se stessa, o meglio, contro la propria base extra-cosciente, dato che la coscienza dell’io non può che essere consapevolezza di sé in quanto spirito, cioè immaterialità, e quindi della propria basilare trascendenza.
Grazie a residui morti dell'antica psiche, capaci di rivestire forma razionale, secondo un’appropriazione illecita della razionalità, l’uomo moderno si è creato nuove divinità, senza saperlo: divinità dialettiche, miti fisici, dogmi della materia, fino alla rappresentazione di un universo meccanico e di una società meccanicamente riducibile a sistema: ciò per l’incapacità di attingere alla radice, secondo libertà, il contenuto dell’esperienza sensibile, e di intenderne la strumentalità rispetto allo spirito.
Il cadavere psichico dell’antica forza magica, afferrando l’uomo dal profondo mediante nuove dipendenze, risorge in forme intellettuali fingenti progresso, etica, cultura. Tale cadavere trova il modo di esprimersi ancora: da una parte attraverso i miti della socialità astratta, tendenti a moderne risurrezioni dell’antica “anima di gruppo” di tipo collettivistico primitivo (da qui il senso del video “La trasformazione dell'io nel noi è un crimine”: https://youtu.be/gsRIpQIkZuk) e, dall’altra, rivestendo forme destituite delle antiche discipline magico-metafisiche correlate alla loro attuale interpretazione dialettica (vedi per esempio la solita manovra massmediatica di Rete 4 intitolata “La strada dei miracoli”, il cui unico scopo è il super addormentamento delle coscienze, per ingraziarsi il vaticano, esperto in tale pratica sub-umana).
L’uomo può pertanto liberarsi e si libererà sempre più se imparerà a distinguere essenzialmente e ad individuare in sé i componenti del suo essere umano, vale a dire il pensare, il sentire, ed il volere. In tal senso, anticamente, era avvertito il potere del logos o della parola (Ebrei 4,12). Il punto iniziale di tale liberarsi è nel pensare. L’uomo comincia a essere libero nel pensare, ma non fa uso di quella libertà, perché per lui è più facile seguire il pensato altrui, o il pensiero mosso da impulsi preconsci piuttosto che movente se stesso. Su questa realtà procedono tutti gli orrori che deve karmikamente sopportare: il dominio dell’uomo sull'uomo, il suo diventare schiavo, il diritto di Stato (la mafia), il monetaggio iniquo, l’iniqua imposizione fiscale, la coercizione, la tortura, le guerre, ecc., con le correlate aberranti giustificazioni teologiche delle confessioni religiose (vedi, ad es., l’anticristiano articolo 2267 del catechismo cattolico).
Non si può pretendere che il cuore batta in testa...
L'avvento di patologie "sociali" come l'ISDS è dato dal fatto che lo Stato di diritto NON esiste...
Cause dell'ISDS: le scuole (cioè la cultura), il diritto e l'economia sono tre cose che lo Stato amministra in modo plenipotenziario, cioè accentrandole tutte in sé (statalismo) mentre dovrebbe occuparsi del solo diritto per essere veramente uno Stato di diritto. Invece distrugge sia la cultura che l'economia in nome di un diritto di Stato... forzoso. Il passaggio dallo Stato di diritto al diritto di Stato è mafia. La risoluzione è l'attuazione dell'idea steineriana della triarticolazione sociale in cui l'economia, il diritto e la cultura possano autonomamente esprimersi rispettivamente secondo fraternità, uguaglianza e libertà. Tale triade è connaturata perfino nella fisiologia umana (sistemi: nervoso, respiratorio e metabolico). È in ogni uomo... Solo in tal senso è possibile il "sabato per l'uomo" di Mc 2,27 ("Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato"). Finché non si comprende questo si continuerà l'opera di saccheggio, dovuta al miscuglio patologico di tre logiche essenzialmente diverse: secondo la logica del diritto è sbagliato distruggere gli agrumi per renderli rari e accrescerne il prezzo, perché l'abbondanza va piuttosto distribuita ai meno abbienti in nome dell'uguaglianza esistente fra uomo e uomo; invece secondo la logica meramente economica è giustificato alzare il prezzo di una merce rendendola rara. Parlando di mafia, scriveva Giovanni Falcone: “È notorio che la Comunità europea concede un indennizzo per la distruzione degli agrumi in eccesso” (G. Falcone, “Cose di Cosa Nostra”, Ed. Rizzoli, Milano), e ancora: “Be’- dice Contorno - tutti sanno all’interno di Cosa Nostra che la mafia è implicata fino al collo nella distruzione di agrumi da cui ricava sensibili profitti” (ibid.). Il fatto che lo Stato di diritto si occupi di cose che non gli competono (come la cultura di Stato, o la religione di Stato, ecc., o l'economia di Stato) genera disfacimento perfino nel diritto, che pertanto rientra poi forzosamente nel campo mercatorio, come se il diritto fosse una merce qualsiasi.
Ecco perché da questa degenerazione giuridica si generano così pseudo-tribunali per la "risoluzione delle controversie tra investitore e Stato" (o "Investor-State Dispute Settlement" o ISDS)...
LE PROTESTE CONTRO L'ISDS SONO DUNQUE INUTILI
NON PROTESTE, DUNQUE, MA PROPOSTE CI VOGLIONO!
E LA TRIARTICOLAZIONE SOCIALE È UNA PROPOSTA.
LA QUESTIONE SOCIALE NON È UN PROBLEMA POLITICO MA DI CONSAPEVOLEZZA DEI CITTADINI: il fatto che nessuno lo abbia voluto risolvere in sé mediante osservazione scientifico-spirituale delle proprie possibilità individuali ha generato fenomeni patologici come l'ISDS...
E questo è ancora NULLA...
Schiavitù e addormentamento delle coscienze vanno di pari passo...
Tutto il pianeta è super indebitato. Ma con chi? Con gli abitanti di Venere? Il fatto che il debito pubblico debba essere ripagato è diventato un dogma sostenuto perfino da sedicenti steineriani (che Rudolf Steiner avrebbe chiamato UOMINI-LOCUSTA)!
Questo video è dedicato alla gerarchia cattolica e soprattutto al vescovo di Roma Bergoglio.
O “bergoglioni”, anziché continuare dal pulpito con la vostra amorevolissima politica del pugno, perché non insegnate al mondo - in quanto esperti di umanità - come attuare e adottare una moneta per l’uomo, cioè una moneta credito in luogo dell’attuale moneta debito?
Nel corso della storia, decine di Paesi hanno rifiutato con successo di pagare debiti dei quali i cittadini non erano responsabili. Lo strumento offerto a tal fine dal diritto internazionale è la nozione di detestabilità (o di odiosità) del debito, basata sui seguenti tre pre-requisiti:
1) Il governo consegue il prestito senza consapevolezza né consenso dei cittadini;
2) Il prestito è utilizzati per attività di cui non usufruisce la cittadinanza;
3) I creditori sono disinteressati a questa situazione pur conoscendola.
L’espansione degli Stati Uniti si confrontò con la necessità giurisprudenziale della nozione di “debito detestabile” (o di debito odioso) fin dal 1898 perché, coi territori occupati e annessi, acquisiva anche il conto lasciato dai regimi coloniali precedenti!
Dietro la maggior parte di esempi degli ultimi tre secoli di “debito detesatabile” vi furono sempre gli Stati Uniti come super-potenza in ascesa.
Così nel 2002, la Casa Bianca preparò i piani d’invasione dell’Iraq per il “giorno dopo” la deposizione di Saddam Hussein e, sapendo che sarebbe stata chiamata a regolare il debito iracheno, ne rilevava, attraverso un gruppo di lavoro segreto, la detestabilità, al fine di bloccarne i pagamenti, col pretesto che gli iracheni non potevano essere chiamati a pagare un debito, acquisito dal regime deposto.
Nessuno però a Washington vuole oggi sentir pronunciare le parole “debito detestabile” o “debito odioso”.
In verità, ogni regime politico che non si apre a questa giurisprudenza, dimostra di essere MAFIOSO, perché la logica vuole che anche ogni tassa “una tantum” (come ad esempio fu l’ICI, poi divenuta IMU), scaturita dalla statale “economia di deficit”, non possa che essere dichiarata DETESTABILE. Quindi NON DA PAGARE.
Riassumendo a grandi linee l’esposizione dell’emerito giudice e costituzionalista argentino Salvador M. Lozada il significato di “debito detestabile” o “debito odioso” (dal film documentario “Diario del saccheggio” di Fernando Ezequiel Solanas) si può dire che le tre principali caratteristiche che il debito deve possedere per essere dichiarato “detestabile” e quindi insussistente sono: 1°) Il governo deve aver conseguito prestiti senza che i cittadini ne fossero consapevoli e senza aver chiesto un assenso esplicito (in Svizzera, ad esempio, è obbligatorio il referendum per approvare spese oltre un certo importo); 2°) I prestiti devono essere stati utilizzati per attività che non hanno dato benefici alla comunità nazionale/locale; 3°) I creditori devono essere al corrente di questa situazione e non manifestare alcun interesse verso i cittadini dello stato “indebitato”. Per esempio, in Islanda i banchieri responsabili del crack furono arrestati e messi in prigione, noi italiani li abbiamo invece eletti presidenti del consiglio con la benedizione della chiesa cattolica e dei partiti di destra, di centro e sinistra!
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Musicista, scrittore, studioso di ebraico e dell'opera omnia di Rudolf Steiner dal 1970 ca., in particolare de "La filosofia della Libertà" e "I punti essenziali della questione sociale" l'autore di questo blog si occupa prevalentemente della divulgazione dell'idea della triarticolazione sociale.
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